mercoledì, luglio 08, 2015

Mi piace quando L. risponde compiaciuto alla domanda "come ti chiami, tu?": "-aaddo". Ma mi piace di più, quando chiede - anzi, dice - "'ncòa", ancora, come un'affermazione.
[Balliamo] "'ncòa" - accendendo la cassa per la musica o tirando la cordicella del carillon.
[Prendimi] "'ncòa" - cominciando a ridacchiare.
[Leggiamo] "'ncòa" - trafficando con la sua libreria.
Mi piace che in qualche modo mi dica di desiderare qualcosa, e in effetti mi rendo conto di aver attribuito alla prima attestazione l'importanza di una tappa evolutiva, quasi al pari di quei primi incerti passi verso di me - insomma, una cosa è piangere perché senti di aver bisogno di qualcosa, un'altra cosa è renderti conto di ciò di cui hai bisogno, e un'altra ancora è esprimerlo: competenza, fra l'altro, che certi adulti sembrano perdere in certi frangenti (o almeno, non per offendere, io, come diceva Belbo). Mi piace che  esprima ciò che desidera con una sicurezza consapevole di sé ma innocente, priva della perentorietà di certe richieste infantili.
Forse è già qui che sbaglio?

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venerdì, maggio 08, 2015

Mentre rientriamo, mia madre dice a L.: "Quando arriviamo a casa fai la nanna e poi andiamo in giardino a raccogliere i fiorellini per la mamma".
[L'infanzia del futuro serial killer]
Dico: "No, per favore, lascia stare i fiori e soprattutto non portarmeli in casa".
Lei, rivolta al bambino, sbotta: "Madre insensibile".
Di colpo ritorno ai miei dodici anni, e penso: rispolveriamo l'equivoco storico della mia mancanza di sensibilità secondo mia madre.
"Mi pare invece che sia proprio perché sono sensibile che odio i fiori recisi e mi disturba vederli agonizzare in un bicchiere d'acqua".
Eppure questo equivoco datato mi conforta, così come mi conforta l'estemporanea, leggera conversazione avuta con un amico. Qualche tempo fa, al telefono, in risposta alla mia ironia, M. è scoppiato a ridere e ha detto: "Menomale, stai tornando in te. La maternità ti aveva addolcita troppo". Ma anche questo è rispolverare equivoci. La dolcezza di cui mi si accusa è riservata a mio figlio (dopo una vita di carezze incerte, è come se io avessi imparato all'improvviso l'esatta misura del gesto) e al pensiero di lui. Quel che possono testimoniare gli altri, di questi miei ultimi mesi, è semplicemente prostrazione, e con la maternità non ha molto a che vedere.
Sono sempre io, dunque?
Un po' di retorica legittima, avendo la sensazione persistente di essere come il tale, in quel vecchio libro di Carrère, che si taglia i baffi che definivano il suo viso da un'eternità, pensando di suscitare quantomeno stupore, e invece nessuno nota il cambiamento, anzi, la moglie, attonita di fronte alle sue proteste, gli comunica che lui non ha mai portato i baffi. Anche se nel mio caso l'equivalente dei "baffi", sono le definizioni che mi sembra ancora mi appartengano e che però in qualche modo non vengono più lette come mie - come un'apposizione mia a posteriori (Duchamp de noantri).

Una domenica sono seduta a guardare la videointervista di Sugimoto nella sala stampa della mostra di Modena; Sugimoto parla dei suoi Portraits, spiegando che si tratta di una moltiplicazione di copie della "realtà": realtà storica poiché, a parte un'eccezione, ha fotografato personaggi di cui conosciamo l'aspetto tramandato dalla ritrattistica pittorica, sulla base della quale è stata riprodotta la figura come statua di cera, che lui poi ha fotografato. Dice, sorridendo, qualcosa come: "Se qualcuno vi vede una persona reale c'è qualche problema". Mi distraggo, mi ritrovo a rimuginare sulla veridicità del punto di partenza e sugli "scarti di traduzione" in un cambiamento; scarti non sempre necessariamente deliberati, ma che spesso avvengono per natura stessa del processo: che qualcosa vada perso è implicito, che sia ciò che di fatto viene eliminato o perso forse non lo è, o meglio, non lo sarebbe stato. Perché proprio quell'aspetto, dopotutto? Era una rimozione inevitabile, con altre condizioni? Cosa rimane dell'impulso iniziale o dei sembianti? Quella che vivo è la versione più consistente del percorso o l'unica possibile? Perché, alla fine, per quanto si ami baloccarsi con i se e con i ma (per fantasticheria o per disperazione), e con i multipli di sé, è la versione univoca, quella che a un certo punto si ha bisogno di tracciare.








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lunedì, dicembre 22, 2014

A proposito di semplificare. Di bianco e nero. Di sfumature trascurate.

"Guardate. L'erba dovrebbe essere verde, il muro della casa giallo, il lago blu. Voi lo sapete e io lo so. Eppure adesso l'acqua è nera. L'erba è grigia e la casa è bianca. È come se i nostri occhi, al buio, riconoscessero le cose soltanto attraverso i contrasti. Colori simili diventano opposti. Sembra un istinto di sopravvivenza: quando uno non capisce ha bisogno di semplificare".

(Paolo Cognetti, nel racconto "Tre bambine non possono giocare insieme" di Manuale per ragazze di successo.)

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venerdì, dicembre 12, 2014

All'improvviso la mia vita appare complicata. Pensavo che crescendo - invecchiando, pardon - si sarebbe semplificata - non tanto nelle questioni pratiche, quanto in altre, più fondanti del "benessere" che ho sempre cercato; pensavo che sarei riuscita ad amministrare meglio il dolore psichico (chiamiamolo così): anche se forse più banalmente e nonostante le mie paure e la mia immaginazione, mi ero voluta convincere che questo tipo di dolore non l'avrei provato. Non in questi termini.
Come mi sento dire su vari fronti, insospettabilmente, reagisco con un certa tempra o un certo stoicismo (leggi: senza farmi prendere dallo sconforto o lamentarmi più di tanto) ai vari malesseri che riguardano o hanno riguardato il fisico: non è così, invece, per quanto riguarda la sfera emotiva, forse perché è quella che mi guida, che regola il mio rapporto con me stessa e con qualsiasi cosa sia altro da me, ed è la mia arma migliore e, insieme, la mia rovina. Segni, sintomi.
Guardo le linee della mano. Probabilmente un giorno scriverò qualcosa su tutto questo.


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mercoledì, dicembre 03, 2014

"Il viaggio portava allo scoperto anche una serie di rimozioni […] di cui si parla pochissimo. Tutto questo non poteva essere scritto in una sceneggiatura, in un testo preesistente alle riprese. Qui sta il fascino del poter lavorare con la realtà: si viaggia in essa per entrare nel mondo spirituale del cinema e lo si fa senza sapere dove si sta andando. Perché se lo si sapesse fin dall'inizio non varrebbe la pena di intraprendere il viaggio". (Lech Kowalski)

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lunedì, dicembre 01, 2014

Sono accucciata per terra, con le ginocchia tra le braccia per non sentire freddo in terrazzo. Prima di accucciarmi ho intravisto il dirimpettaio in giardino. L'ho visto perché è autunno e gli alberi del parco sono spogli: fra il mio e il suo giardino ci sarebbero infatti rami e fronde, e una roggia. Che poi, non l'ho neanche visto chiaramente: ormai si è fatto buio.
Da qui posso vedere solo un rettangolo di mondo esterno, ciò che si intravede tra una colonna portante e il muretto del terrazzo, ma lo sento cantare una canzone di un tempo che non ho conosciuto (porta anche il nome di un personaggio di Dumas) e sentirlo cantare là fuori, mentre io sono qui e vedo solo l'immediato, illuminato dalla luce del terrazzo, mi fa sentire dentro quel quadro di Magritte - chissà perché Magritte mi viene in mente così spesso - quello con la casa immersa in un cielo notturno e al di sopra degli alberi il cielo del pieno giorno.
Ho ricominciato a fumare, mi sa (ma il ritorno al vizio sarà ufficializzato solo quando, invece di scroccare quelle altrui, comprerò il primo pacchetto di Gauloises per me medesima).



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martedì, novembre 25, 2014

Devastante scoprire di non essere il personaggio che credevi di essere all'interno di un determinato racconto. Più devastante capire di aver equivocato il racconto, perché il racconto era un altro.
Culmine della devastazione, accorgerti che probabilmente non si trattava nemmeno di letteratura, bensì di cattiva televisione.

Sono quanto di più lontano da una fenice. Eppure c'è qualcuno che si aspetta che io lo sia, quindi dovrò cercare di produrne un'imitazione. Ne verrà fuori una voce di bestiario.

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venerdì, gennaio 03, 2014

Il 2013 è andato. Contrariamente a quanto vissuto da amici e conoscenti, e nonostante il deprimente panorama politico e sociale italiano che anche il 2014 lascia intravedere, per me si è trattato di un anno eccezionale, nel senso di eccezionalmente fortunato: diversamente dal solito, non ho di che lagnarmi. E quindi niente bilanci, esprimo semplicemente gratitudine: anche perché non sono così convinta che ricapiti, almeno a me, una serie di eventi, risultati o anche solo di possibilità, come quelli concessi da quest'anno. A dire il vero aspetto sempre che arrivi (e arriverà) la batosta che invertirà la tendenza, ma in ogni caso a questo punto non sarà attribuibile al 2013, che si conserverà "puro" nei miei ricordi.

Per esempio, ormai parecchi mesi fa ho passeggiato sotto un sole prematuramente cocente sul lungomare di Be irut, per quanto riesca persino a me difficile crederlo.
Un breve eppure preziosissimo viaggio che non era in programma fino a poche ore dalla partenza: mi è stata offerta un'opportunità irripetibile che sono felice di aver colto e assecondato, insieme a S. Non avendo avuto preavviso, abbiamo agguantato la prima - e unica - guida trovata in aeroporto, una LonelyPlanet su Si ria e Liba no. Dopo aver letto tutto ciò che c'era da leggere per quanto riguardava il Liba no durante il viaggio d'andata, nel viaggio di ritorno mi sono dedicata alla Si ria. L'introduzione chiudeva con l'esortazione: "Andate in questi paesi straordinari e non perdetevi l'opportunità di apprezzarne gli abitanti, ma fatelo ora, finché la situazione politica lo consente". Ho controllato il colophon: era un'edizione del 2008.
In questi ultimi mesi, leggendo con apprensione crescente le notizie dalla regione, ho pensato spesso a questa introduzione, così come ho pensato spesso, mi sono voluta convincere, che mio figlio abbia avuto durante questo viaggio o anche grazie a questo viaggio la sua vera opportunità di esistere, non tanto per il concepimento quanto per ciò che ne deve seguire - visto che il proseguimento non è garantito e io avverto più di altri l'influenza diretta e vicendevole della mente sul corpo. Dire che mi sono trovata, o meglio, ritrovata, in viaggio è quanto di più preciso si possa dire, non solo per la fortuità della circostanza: mi ha dato la possibilità di essere di nuovo presente a me stessa, mi ha fatto recuperare le risorse con cui normalmente alimento quel desiderio rapace di conoscenza pratica, data dall'esperire - quell'arricchimento permanente di cui non si gode solo al momento - che nel quotidiano ogni tanto finisco per trascurare.
Mi sono voluta convincere che questo breve viaggio in un paese così complesso, travagliato e affascinante, sia stato in un certo senso di buon auspicio per mio figlio perché uno dei pochi obiettivi educativi che per ora mi pongo sarà quello di offrirgli lo strumento di base per (aver voglia di) conoscere in modo autonomo e laico, senza particolari pregiudizi: la curiosità. Il viaggio è uno dei mezzi più adatti per stimolarla, perché insegna a mettere da parte eventuali preconcetti e a formulare casomai concetti propri e personali. (Anche se c'è chi, nonostante abbia viaggiato in lungo e in largo, non l'ha mai imparato. Vedi qualche post fa.)


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giovedì, ottobre 10, 2013

E comunque, ultimamente, ogni volta che considero di ricominciare a scrivere mi torna in mente la citazione di Artaud che introduce Un romanzetto lumpen di Bolaño, che mi fa sempre sorridere in primo luogo di me stessa e del mio bisogno (o desiderio, movente dei moventi) di esprimermi attraverso la parola scritta: "Tutta la scrittura è porcheria. Le persone che escono dal vago per cercar di precisare una qualsiasi cosa di quel che succede nel loro pensiero, sono porci. Tutta la razza dei letterati è porca, specialmente di questi tempi".

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mercoledì, ottobre 09, 2013

Non ho desiderio di parlare di questo con nessuno in particolare e quindi non cerco testimoni, non alzo il telefono, non chiedo udienza; ma l’istinto di dare una forma all’inquietudine, di elaborarla, m’indurrebbe a mettere una dietro l’altra qualche parola, per contenere, tracciandone i contorni, quel malessere che di primo acchito non ho riconosciuto solo perché avevo altro a cui pensare. Per qualche mese ho assaporato la felicità, non l'euforia momentanea e delirante seguita a ruota dal crollo rovinoso, ma quella gioia costante e senza ombre che mi ero sempre domandata se davvero esistesse, al mondo, per qualcuno; per me è stata una novità assoluta. Temo però che si trattasse di un effetto comune, una combinazione fisiologica di entusiasmo e ormoni destinata a non permanere nemmeno per tutto il periodo della gravidanza, figuriamoci dopo. Scoprirlo mi ha delusa, non tanto per me, quanto per il figlio che aspetto (aspetto ormai con impazienza, e mancano ancora tre mesi): in fondo, ciò di cui ho sempre avuto timore al pensiero di averne uno, al di là di tutte le questioni pratiche e dei possibili e probabili errori, era l'incostanza del mio umore.
I taccuini che ho comprato sono ancora intonsi, ad eccezione di qualche timida e sparsa annotazione – che però non ha valore. Ciò nonostante, quando vi ho scritto l’ho fatto con deliberata malagrazia, utilizzando imbrogliati artifici calligrafici – un pastiche alfabetico che non rispetta l’ordine delle righe, approssima colonne e annette note affollando dei margini imprecisi: un rodato automatismo di camuffamento o crittografia senza codice che rende impossibile a me prima di chiunque altro, di carpire una parte di senso con il semplice guardare.
Spesso mi sono sentita una spettatrice compromessa, che non partecipava alla rappresentazione ma da quella si sentiva alterata. Forse per questo motivo per tanto tempo mi sono imposta obiettivi di entità trascurabile – così minimi che niente potesse frapporsi fra la formulazione e l’adempimento – e ho preso bene le misure. Ma adesso non mi permetterò più di farlo. Forse ha ragione S., almeno riguardo a questo, sono (già) cambiata.

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lunedì, aprile 22, 2013

Mi è arrivata una mail da un'altra piattaforma per i blog, dice che sono ormai anni che non accedo al servizio e se non vedono segni di vita entro quindici giorni chiuderanno l'account. Non mi ricordavo neanche di aver intrapreso quella strada parallela, ma quando ho visto la mail m'è tornato alla mente: era una specie di ripicca (apocrifa?). La cosa divertente è che nella pagina c'è un unico post che però, per senso e natura (e letto a posteriori), potrebbe essere un discorso compiuto. Le voilà:

tralascio?


Allora che fare, eh? Rinunciare?
Accettare uno sguardo placido, è insostenibile (annullare, temo sia impossibile).
Ritornare bella di austerità e di tristezza, troppo oneroso (riprovare, temo sia impreciso: presume una bellezza d'antan).

[E invece all'oggetto del discorso non rinunciai]

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mercoledì, dicembre 26, 2012

Potrei anche dire che ho smesso di annotare certi comportamenti, ma come al solito varrebbe solo fino alla prossima volta che accade (e infatti eccomi qui, aggiorno qualcosa scritto parecchi mesi fa che mi è di nuovo capitato di appurare). Purtroppo, sono una di quelle persone che, come si suol dire, è - o può essere - capace di perdonare, ma non dimentica mai, soprattutto le cosiddette "piccole cose" dette o fatte da persone importanti che, ovviamente, spesso portano delusioni importanti - e non sto parlando d'amore, naturalmente. (Piccole cose che evidentemente occupano parecchi slot della mia memoria, che su altre questioni di cui si parla pare invece sempre più manchevole: mi chiedo se stia diventando semplicemente molto selettiva per via del bombardamento di informazioni a cui la sottopongo o piuttosto si tratti di quella specie di processo degenerativo a cui va incontro chi passa molto tempo da solo per via del lavoro autonomo.) Sono consapevole che si tratti di una forma lieve di rancore: classico, ordinario, che aspetta una conversazione qualsiasi per essere espresso insieme all'inevitabile codazzo di rancori accessori. Che aspetta di essere riproposto in una forma poco decifrabile, come in un pulviscolo elettrico, sostanzialmente inutile. O che aspetta semplicemente di diventare una più raffinata, e taciuta, amarezza.

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venerdì, novembre 23, 2012

La settimana scorsa la popolazione felina della casa è raddoppiata. Prima che arrivasse il secondo elemento osservavo la mia tigre dormiente, che ha sei anni ma vive con noi soltanto da uno e mezzo, e avevo il sentore che qui si sarebbe scatenato l'inferno. Osservo spesso il mio gatto, lo studio affettuosamente invidiandone, come Bukowski, il sonno disinvolto e privo di rimorsi (e l'economia dei movimenti e la ruvida espressione della sua individualità, tuttora un po' selvatica). Siamo l'uno per l'altra maestri di qualcosa e se vuoi è buffo che proprio io gli abbia insegnato, con pazienza infinita, cosa sia la fiducia. Ma così è, si può dire che sono il suo essere preferito. Se vuoi è buffo che io riesca a capirlo.

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mercoledì, novembre 07, 2012

Nel 2008 la vittoria di Obama per me è stata: esaltazione, gioia immensa e grandi aspettative. Dopo questi 4 anni, la vittoria è soprattutto un sollievo. D'altra parte il fascino degli Obama è sempre indiscutibile e sono così disillusa e incarognita e nauseata dalla politica italiana, che mi sembra quasi di aver vinto anche io le elezioni.

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giovedì, novembre 01, 2012

Ho avuto l'occasione di conoscere e chiacchierare a lungo con un'anziana signora palermitana, madre per antonomasia e per vocazione, che dopo qualche minuto di conversazione mi trattava come una figlia - trattava tutti come suoi figli: un florilegio indiscriminato di "gioia mia" che in altri casi avrei considerato un importuno veicolo di affettazione, lasciando prendere il sopravvento alla mia ritrosia. Ma si parla appunto di altri casi. Conoscendo meglio questa signora mi sono resa conto che, per quanto possa parer strano, era sincera nel dire che ero la sua gioia o che lo fossero tutti. Una madre totale e anche un po' totaliaria sul piano emotivo, persona singolare, affabile, ironica e molto perspicace. Quando ci siamo salutate le ho detto che mi sarei sempre ricordata di lei con affetto, e anche io ero sincera.
Questa signora mi ha detto più volte: "Tu sei una roccia, come me, sei forte". Tale affermazione mi portava alle labbra un sorriso condiscendente, sia per la metafora elementare, sia per la diversa considerazione che ho della mia consistenza e della mia natura, ma ho lasciato che mi definisse come mi vedeva, senza protestare, decidendo che non dev'essere sempre prioritario e non è corretto, cercare di portare gli altri a vedermi come mi vedo io. Opporsi al fatto che il mio profilo oggettivo e quello soggettivo non aderiscano perfettamente e cercare di farli combaciare è irragionevole e futile e insalubre, in primo luogo perché è un altro modo di mascherarsi: nessun volto conosce la simmetria perfetta.
Nessuno. Tra le poche certezze che mi portavo appresso fino a qualche tempo fa c'era quella che a un certo punto avrei dovuto prendermi veramente sul serio e non avrei avuto risorse, avendole consumate per quelle minuzie che stabilizzano e minano incessantemente il mio equilibrio.
E però ho scoperto che il tipo di serietà di cui dicevo sopra non si misura e non si consuma per le minuzie; la nuova, gradita, consapevolezza è che posso prendermi sul serio. E, per fortuna, quando sarebbe scontato e sarebbe ammesso, posso avere la forza di non farlo.
Non so se si possa dire che sono una roccia. Se lo fossi sarei una roccia argillosa, che assorbe, assorbe e si sgretola, e in un attimo è sabbia. Magari un'ocra di Roussillon?

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martedì, ottobre 30, 2012

Nuova situazione, quella di voler scrivere qualcosa e di scegliere di non farlo, anche se sarebbe utile e in un certo senso dilettevole, almeno nell'immediato. Per una volta non si tratta di non voler affrontare l'ordalia (quella per cui "se riesco a scriverlo è vero"), né di mancanza di tempo, né di procrastinazione. Solo una sorta di pudore conveniente, se possiamo dire così, perché in fondo forse è più sensato non pubblicare un post che pubblicarlo per poi cancellarlo repentinamente perché - strano a dirsi - qualcuno potrebbe leggerlo.

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lunedì, ottobre 01, 2012

Se dovessi pentirmi di essere andata a vivere in campagna - voglio dire pentirmi veramente - non sarebbe in settembre, né in ottobre. Non è tanto per i colori all'esordio dell'autunno: il foliage, tra le risaie, è un fenomeno tutto sommato esotico e le risaie in sé danno il loro meglio, dal (mio) punto di vista estetico, in primavera o in estate. Eppure l'aria frizzante del mattino quando vado a correre, la foschia che maschera con una silhouette fumosa le cascine isolate, il profumo della legna nei camini ai primi freddi, mi fanno sentire grata, anzi addirittura privilegiata rispetto ad altri, o almeno ripagata dell'aver abdicato ad altre aspirazioni, ormai da tempo semplici pour parler, in cui a volte però inciampo come si inciampa nella propria ombra a certe ore del giorno.

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martedì, ottobre 25, 2011

"Parlai di un amico che è convinto gli piaccia viaggiare, ma che, quando gli si chiede se gli è piaciuto il suo ultimo viaggio, qualsiasi sia stata la meta, risponde senza eccezioni: 'Non tanto', e comincia a elencarne i motivi. Quello che gli piace non è viaggiare ma piuttosto la logistica del viaggio, la contemplazione delle scoperte, la premeditazione di treni che partono in orario e non trasportano neonati urlanti, hotel con finestre che si aprono, ristoranti senza camerieri scortesi, strade asciutte, dritte e non trafficate, e soprattutto un tratto digerente mai messo alla prova da cibo inconsueto. Ama il disegno architettonico di un viaggio e non la struttura autentica dove la bolla non è mai a piombo ma sempre un paio di gradi per traverso, dove le assi si imbarcano e i cardini si allentano, dove il falegname ha bisogno di una mazza tanto quanto di un metro. E in verità, per amare la realtà della strada, un viaggiatore fa bene a mettere in valigia un piccolo martello emotivo e tenersi pronto per usarlo spesso".

(William Least Heat-Moon, da Le strade per quoz)

Questo pezzo mi ha fatto sorridere perché ne ho conosciute di persone del genere. Ho qualcosa da aggiungere sulla psicologia di certi sedicenti viaggiatori. Poi ne riparliamo.
Ho nostalgia della Mongolia e, nonostante io sia la persona più insofferente al freddo che esista sulla terra, mi incuriosisce il suo inverno. Byamba mi aveva detto che dopo aver studiato tre anni in Corea, al primo inverno trascorso a UB pensava di non sopravvivere.

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lunedì, ottobre 10, 2011

Rileggo con curiosità un testo che ho scritto, non ho finito e non ho mandato a chi dovevo e penso, ancora una volta, che a volte è davvero come se mi impegnassi a dimostrare che sono inconcludente. Invece non l'ho finito e non l'ho mandato perché era troppo sincero - e non era richiesta tanta sincerità (a volte mi capita, di essere troppo sincera a sproposito). E chi riuscirebbe a sopportare non dico una critica, ma del disinteresse, dopo essersi sputtanato a tal punto?

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giovedì, giugno 16, 2011

L'andazzo è (di nuovo) quello dell'attacco di panico nel cuore della notte.
Non ce la posso fare.
Non so se la serenità non mi sia concessa o se sia io a non concedermela perché è così che so vivere. Tra tutte le mie psicosi, quest'ansia che mi schiaccia - me ne rendo conto - è pure la meno intrigante.

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domenica, giugno 05, 2011

Io e s. ci beamo del fatto che spesso, all'estero, le persone rimangono stupite quando diciamo di essere italiani. L'altro giorno, però, una signora italiana di un'altra scala del palazzo (con cui - d'accordo - gli unici scambi sono stati i saluti in cortile e le mie condoglianze per un lutto che aveva avuto in famiglia), mi ha incrociata con un cartone tra le braccia e mi ha detto: "Se ne va? Mi dispiace che non vedrò più il suo viso! Torna al suo Paese?"
Mi è venuto in mente che una volta anche una ragazza marocchina del palazzo, con la quale avevo fatto quattro chiacchiere, mi aveva chiesto se fossi dell'Est.
All'epoca mi ero chiesta se pensasse che fossi transilvana per via dei miei canini.
Sarà la faccia, il modo in cui mi vesto o l'accento? E sì che vengo presa in giro dal coinquilino perché dico "fresco" e "buffetto" con una "e" aperta pure troppo milanese.

Ormai è fatta, il trasloco è andato (anche se buona parte dei pacchi sono ancora parcheggiati chiusi e dormienti in attesa del montaggio delle librerie e dell'armadio) e io sono in provincia: ho fatto già richiesta per il cambio di residenza - anche se ho aspettato di votare a Milano (e sono stata premiata, per una volta). E com'è lecito aspettarsi da una persona quale io sono, non so bene come stare, se bene o male.

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domenica, aprile 17, 2011

Ho dovuto cominciare a preparare degli scatoloni di libri, non tanto perché l'emigrazione verso la provincia sia imminente (non avverrà prima di giugno), ma perché il mobiliere ha bisogno di qualche mensola-campione per adattare la libreria al nuovo soggiorno. Già che c'ero, ho cercato di fare le cose per bene, riponendo i libri e istoriando gli scatoloni con pittogrammi che mi risparmino di doverli poi aprire tutti per riuscire a raccapezzarmi e infilare di nuovo i libri al loro posto secondo il mio criterio emotivo (escludendo le macrocategorie "giappone", "noir", "letteratura di viaggio", che sottintendono ad altre leggi). Dopo vari scatoloni, contemplando la variopinta abbondanza ancora sugli scaffali, ho pensato alle mensole in camera - imbarcate - al comodino con tre pile instabili di libri e all'altra metà dei miei libri rimasta a casa dei miei genitori e mi sono domandata come potesse essere, dopo aver letto tanti libri, di essere ancora così impreparata. Non tanto culturalmente (anche se mi sento in una fase regressiva), quanto piuttosto nel gestire me stessa.
Negli ultimi mesi, a dire il vero, mi sento impreparata anche solo a parlare di me stessa, così svicolo, dico qualche sciocchezza per alleggerire il tono, a priori, e alla fine rinuncio. A volte vorrei offendermi per la noncuranza con cui questo viene accettato da alcune amiche, ma lascio perdere. In fin dei conti è un atteggiamento comunque preferibile al farmi aprire il vaso di Pandora solo per amore di conversazione.

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martedì, settembre 28, 2010

Mongolia/3 (qualcuno :) voleva sapere come sopravvivono i vegetariani in Mongolia)
La dieta Mongola è sostanzialmente fatta di carne e farina, diversamente combinate, con l'aggiunta di una selezione limitata di latticini.
Dato che saremmo andati a cena ogni sera da famiglie che si nutrivano principalmente di carne, per abitudine, certo, ma soprattutto per necessità, avevo il fondato timore di dover spesso rifiutare e magari offendere i nostri ospiti. Com'è noto, non sono una vegetariana pentita, che alla bisogna si adatta a mangiare carne o pesce: ne ho il ribrezzo, non amavo mangiarli nemmeno da bambina. Però non parto dal presupposto che gli altri capiscano e condividano. Non lo capiscono in Italia, dove i vegetariani hanno tutta la materia prima di cui necessitano, figurarsi in un paese dove si deve importare quasi tutto a parte latte e carne - anche se è un paese dove c'è un grande rispetto per gli animali, verso i quali non c'è un atteggiamento ipocrita.
Quando abbiamo concordato l'itinerario e le modalità di viaggio con i gestori dell'ostello io e s. abbiamo sottolineato il problema cibo; prima di partire, però, lì all'ostello avevamo conosciuto dei ragazzi israeliani di ritorno dal Gobi, che nonostante avessero specificato le stesse necessità, il più delle volte avevano dovuto cercare di mangiare il mangiabile e scartare il resto.
Quindi per il fatto di non aver mai saltato una cena e di non aver mai rifiutato niente o offeso nessuno, dobbiamo probabilmente ringraziare la nostra interprete, che si è sempre premurata di farci avere un'alternativa vegetariana: abbiamo visto un paio di volte l'espressione quasi angustiata delle signore che ci avrebbero preparato la cena ma lei si è sempre presa la briga di spiegare loro cosa fare, eventualmente aiutandole.
A parte i primi giorni (in cui avevamo ancora un po' di scorte della spesa fatta a UB, dove ormai si trova di tutto) e qualche rara eccezione, abbiamo mangiato quasi sempre carote e patate a pranzo e cena, accompagnate a riso, pasta o noodles oppure come ripieno di buuz (ravioli al vapore che di norma sono ripieni di montone) e khuushuur (ravioloni ripieni fritti), ricette che Byamba ha provato ad adattare per noi - "se dicessi a mia madre che ho messo nei buuz questo ripieno non ci crederebbe". Una dieta forse monotona, ma non abbiamo mai sofferto la fame, nè ci saremmo mai sognati di lamentarci. E i khuushuur non erano affatto male. Una sera ho anche aiutato Byamba a prepararli; mi guardava mentre mettevo dell'impegno nel chiudere dei ravioli palesemente deformi, dicendomi di quando in quando: so cute.
Posso consigliare un ristorante vegano a UB (strategicamente vicino all'ostello e non proprio preso d'assalto dalla gente del luogo, ma questo non gli toglie niente), dove abbiamo mangiato piatti mongoli in versione vegan davvero deliziosi.

Naturalmente ci è capitato di assaggiare anche altre specialità, anche se diplomaticamente possiamo dire che non si va in Mongolia per le squisitezze del palato. Una famiglia di allevatori di yak ce ne ha fatto assaggiare il latte (sapore molto intenso, quasi selvatico), abbiamo provato l'aaruul (formaggio dal sapore... "difficile", versione "truciolata" e versione spaccadenti - spacca denti occidentali: loro sono convinti che questo formaggio sia uno dei motivi per cui hanno dei buoni denti - io dico che hanno buoni denti anche perché non è nella loro tradizione di mangiare dolci propriamente detti). Per la strada dai nomadi abbiamo comprato airag (latte fermentato di giumenta, leggermente alcolico, che i mongoli bevono a litri) e nei guanz (osterie) abbiamo bevuto il famoso tè al latte salato (a me non dispiace, inteso più come una "zuppa" che come un tè). Provata per voi anche la vodka distillata dal latte di giumenta.

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lunedì, settembre 27, 2010

Mongolia/2
Molti dei grandi tour operator che offrono costosissimi viaggi in Mongolia, tengono UB come base e fanno per lo più spostamenti in aereo dalla capitale alle singole località di interesse. Mi sono fatta l'idea che sia perché lo stato (o l'inesistenza) delle strade mongole, non permetterebbe di offrire un viaggio abbastanza confortevole, magari di standard occidentale, o di calcolare i tempi di percorrenza, che dipendono molto dal tempo atmosferico (perché se piove, per esempio - questo soprattutto al centro-nord - ci sarà fango).
Il fatto è che sorvolare il deserto per atterrare in una qualche remota cittadina al centro o ai confini del nulla (tra l'uno e l'altro: un'ellissi), dal mio punto di vista, ha poco senso, dato che il Gobi è l'esempio più perfetto di luogo in cui il viaggiare e il semplice passare sono due esperienze completamente differenti.
Un proverbio mongolo dice che la gioia dell'uomo sta negli ampi spazi vuoti; ed è vero. È impossibile non lasciarsi ossessionare dall'orizzonte, un orizzonte ostile, anzi, uno degli orizzonti più ostili della Terra, che suscita una beata, segreta irrequietezza e impone di abbandonarvisi, come se la mancata percezione di confini inducesse a non arginare i vizi dell'umore, piuttosto per equivalenza li sciogliesse, semplificasse.
Non attraversare il Gobi, significa non conoscere la malìa del niente così smisurato e la sua superba desolazione; un'immensa distesa di niente, ma un niente incredibilmente vario: ampie superfici erbose spezzate da singolari formazioni rocciose, zone ghiaiose dove cresce il saxaul e nulla più, calanchi, canyon, fiammeggianti rupi di arenaria e, in zone molto ristrette, dune - dune impressionanti, spettacolari, che grazie al variare della luce e al vento rinnovano ogni momento il loro mistero.
Fosco Maraini, pur parlando di un altro Paese (il Tibet, i cui tre elementi caratteristici erano secondo lui il burro, le ossa e il silenzio), scriveva [..] V'è il silenzio giallo, ocra delle sassaie; quello cilestro-verde dei ghiacciai; quello delle valli dove roteano altissimi, contro il sole, i falchi. Ed è il silenzio che purifica tutto, secca il burro, polverizza le ossa e lascia infine nell'anima una dolcezza inesprimibile di sogno, come avessimo toccato qualche patria originaria perduta, dopo la primissima infanzia della storia.

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giovedì, settembre 09, 2010

Mongolia/1
Il rientro a Milano ha avuto un impatto meno traumatico del previsto, nell'immediato, ma a distanza di una settimana il senso di smarrimento dato dal viaggio non ha ancora ceduto il passo agli smarrimenti di routine.
È stato meno traumatico del previsto perché il vero choc culturale l'abbiamo avuto rientrando a Ulaan Baatar dalla provincia. Byamba era in fibrillazione: dopo tre settimane tra deserto, steppa e la puntatina nella taiga, a UB tutti le sembravano terribilmente alla moda. Ambakh la prendeva in giro inventandosi delle pose mentre aggirava o scioglieva grovigli di auto a colpi di clacson e frizione per riconsegnarci all'ostello.
Abbiamo percorso, in diciotto giorni, più o meno 4200 km - alla media dei 40 all'ora, dato che al momento su un paese grande come buona parte dell'Europa occidentale solo poco più di 1500 km sono strade battute.
Per l'itinerario (grosso modo) che abbiamo coperto la LonelyP indicava 2700 km: l'ho detto a Byamba, aggiungendo che probabilmente avevano unito i punti sulla cartina e misurato le linee rette. Lei (saggia giovane interprete) mi ha risposto: "A volte quando leggo quello che c'è scritto sulla LonelyP penso "Sì, questo è vero. Ma non poi così tanto".

Dopo tre settimane di latrine, il bagno di casa, che pure è un bugigattolo in puro stile cesso scolastico (da qualcuno definito "all'olandese", ma credo fosse una definizione di cortesia) mi è sembrato un alloggio lussuoso. D'altra parte già l'approccio con il bagno dell'ostello, che il giorno in cui siamo tornati era senza acqua calda, ma con acqua corrente, era stato divertente: per abitudine mi ero portata al lavandino la bottiglia d'acqua per lavarmi i denti.
Eppure non è difficile adattarsi. Per stancarmi delle scomodità avrei avuto bisogno di molto più tempo. In cui avrei potuto continuare a non stancarmi di tutto il resto: avevo letto parecchi libri sulla Mongolia, eppure tutto è riuscito a meravigliarmi.
Uno dei primi giorni, viaggiando verso il Gobi, avevamo chiesto a Byamba di fermarci per fotografare una montagna, che si ergeva improvvisa, imponente sulla steppa. Lei ci ha detto che era una montagna a loro molto cara, che uno dei loro massimi poeti le aveva dedicato una poesia che tutti i mongoli conoscono a memoria. "Come si chiama?"; lei ha risposto, quasi scusandosi: "Noi non possiamo pronunciare il nome delle montagne. Pensiamo porti sciagure". Allora m'è venuto in mente uno dei suggestivi racconti di Fritz Mühlenweg. Le ho detto, sorridendo: "Già, l'avevo letto in un libro, ma... era il racconto di un viaggio degli anni '20".
Il giorno dopo, parlando della successiva tappa del viaggio, le abbiamo chiesto a che ora saremmo potuti arrivare. Al che ci ha risposto, questa volta ridendo lei stessa, che non poteva dirci quanto ci avremmo messo: altrimenti sarebbe potuto capitare qualcosa sul percoso che ci avrebbe fatto ritardare.
Il tempo in Mongolia, è vissuto diversamente, ma è anche di una qualità differente. Io e s. eravamo più che disposti a lasciare che le cose andassero come dovevano andare, che i minuti per una volta se la vedessero tra di loro; e in ogni caso Byamba e Ambakh avevano tutta la nostra fiducia. Così nessun inconveniente o ritardo ci ha mai allarmati o irritati. E di inconvenienti riguardanti l'automezzo, ce ne sono capitati un po' di tutti i tipi.
Mühlenweg in un racconto scriveva: "Il mio apprendistato era stato straordinario. Era durato solo quattro settimane, ma quelle quattro settimane avevano trasformato un ottuso seguace dei minuti in un riflessivo allievo del tempo".

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sabato, agosto 14, 2010

Post di servizio
Nel senso che devo togliermi lo sfizio di scrivere su una tastiera mongola un sain bain uu da Dalanzadgad, Gobi

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mercoledì, agosto 04, 2010

Dopo essermi per mesi addormentata alle due, svegliata prima che arrivasse la luce del giorno, aver barcollato verso il divano e, sognando di continuare a barcollare, essermi messa a leggere un romanzo, una guida di viaggio, un manuale sui giardini, sono pronta per la retromarcia (anche se manca ancora del tempo). Sto monitorando il meteo di Ulan Baatar, le minime e le massime, per abituarmi mentalmente all'escursione termica tra notte e giorno, specie nel Gobi. Ho pronta buona parte dei vestiti e degli amennicoli vari da infilare nello zaino, il punto è proprio vedere se riuscirò a farceli entrare e soprattutto se riuscirò poi a mettermelo in spalla. D'altra parte so che, fuori e dentro metafora, questo bagaglio perderà peso con l'andare dei giorni: alcune cose andranno donate, altre consumate e altre, più gravose, si faranno lievi fino a scomparire negli spazi senza confini né barriere della steppa e del deserto.

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venerdì, maggio 28, 2010

Mi meraviglia come possa essere sempre puntuale e allo stesso tempo imprevedibile, questa angoscia.

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martedì, febbraio 02, 2010

Trovo che sia un'esperienza interessante leggere libri che ti vengono prestati da amici e che accompagnano il gesto dicendo che nella protagonista trovano piccole somiglianze con te. È la seconda volta che mi capita, per libri completamente differenti e protagoniste decisamente poco affini. Questa volta mi scappa un sorriso leggendo qualche riga in cui in effetti mi riconosco, dopotutto immedesimarsi è un fatto, sapere che altri riconoscono dei tuoi tratti, non esclusivamente macroscopici, è un altro.
La volta precedente l'avevo presa molto più sul serio, mio malgrado, perché desideravo essere come la coltissima, fascinosa protagonista del libro. Chissà se saprei ancora cedere a una lusinga del genere? Ne dubito, dato che di recente in alcuni momenti sono arrivata a rimpiangere ciò che sono stata (in parte) in passato - il che, avendo chiara memoria di quanto mi sia saputa disprezzare, oltre a essere indicativo, è piuttosto folle. Forse per il presente mi accontenterei di essere vista come la protagonista di cui sopra; in fin dei conti assomigliarle anche solo in superficie, varrebbe un'opportunità. Credo che sia proprio il fatto che per troppe persone la mia instabilità emotiva sia diventata manifesta a farmi dare di matto e a rendermi così insicura. Un tempo mi venivano rimproverate un'eccessiva freddezza, indifferenza, imperturbabilità, rimproveri che erano maledettamente ingiusti e che vorrei che mi venissero rimproverati tuttora, sempre ingiustamente.

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mercoledì, novembre 11, 2009

Ricevo una chiamata dal consultorio, avevo prenotato una visita settimane fa dalla solita dottoressa. Mi dicono che non posso essere visitata e che devono sospendere tutte le visite almeno fino a gennaio per il rischio pandemia (se l'allarme non rientra, anche oltre gennaio). Ora mi chiedo: e quindi io nel frattempo, se ho bisogno di una visita, dovrei andare a cercarmi un medico privato? (O meglio, dovrei andare dalla mia dottoressa privatamente?) Immagino sia una disposizione del presidente della regione.
Queste cose mi fanno imbestialire. Sarà anche che sono fra gli scettici che tendono a non considerare questa influenza differente dalle varie forme influenzali a cui si è dato un nome negli anni passati - fra gli scettici che si innervosiscono parecchio a proposito delle sequenze di un quarto d'ora al telegiornale sui banchi vuoti, quando ci sarebbero parecchie notizie a cui dare uno spazio che non hanno. Ma soprattutto non capisco perché mi si debba, direttamente e indirettamente, incoraggiare ad andare da un privato: sono sempre dell'idea che andare da un privato debba essere una scelta, non una necessità e il servizio pubblico debba avere la possibilità di fornire un servizio efficiente.

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