mercoledì, maggio 30, 2007

Quando leggo articoli come questo, mi viene un riflusso gastrico perché mi accorgo che statisticamente faccio parte di questo "humus" (melma) creativo milanese. Ciò che mi consola è leggere che "Milano è infatti la città dove si registra il maggior numero di professionisti creativi concentrati tra i 31 e i 40 anni [...] così come di creativi con meno di 30 anni", perché significa che almeno per l'anno dei trenta non rientro in nessuna delle due percentuali.
Poi, certo, ritornano disperazione e riflusso gastrico quando, facendo il pacchetto dei file di una copertina, inDesign mi segnala oscuri possibili problemi che poi nel rapporto voce-per-voce non mi sa identificare. Jeeez, il mio computer è il mio specchio.

Parlando di creatività, leggevo oggi in un altro libro di Percival Everett, forse audace, forse astruso, forse un poco pretenzioso: quelli come mio padre avrebbero trovato molto triste che Leibniz tenesse le proprie opere migliori sotto il letto. Secondo me invece è un peccato che non siano rimaste lì, al sicuro dalle brame di chi è in cerca di fama, di chi vuole farsi un nome, di chi si nutre di dogmi. Dite alle vostre idee di non accettare caramelle dagli sconosciuti. Non permettete alle vostre idee di giocare in mezzo alla strada. Non date alle vostre idee giocattoli con pezzi troppo piccoli: potrebbero infilarseli in bocca e soffocare.

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lunedì, maggio 28, 2007

Ero convinta che l'Irlanda m'avesse guarita dalla meteoropatia, ma ho scoperto che la condizione fondamentale per non patirla è essere in Irlanda. Andarsene in giro per le scogliere, asciugarsi e cambiarsi nei cessi dei locali, mangiare zuppe calde inzuppandoci pane al bicarbonato spalmato di burro, entrare in Connemara dalla porta sul retro.

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martedì, maggio 22, 2007

E' una questione puramente simbolica - soprattutto per quanto riguarda il numero - e quindi ininfluente sui miei tricipiti, che sono destinati a una piatta esistenza, però quando mi trovo tutto il giorno chiusa in casa perché ho dei lavori da concludere, mi metto a fare le flessioni come i carcerati.

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giovedì, maggio 17, 2007

Era There's no need for us to be alone.
Forse non fu del tutto appropriata. Non solo per via della storia, non solo perché è un ricordo di cui ho l'esclusiva, ma perché io trasformo consapevolmente, deliberatamente, i miei desideri in necessità e poi voglio, amo, stringo, tutto all'opposto di quella donna, quel pronome she della canzone.
Eppure, soffoco. Soffoco.

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mercoledì, maggio 16, 2007

La prossima volta che mi chiedono di scegliere un incipit, scelgo questo:
"A nostro cognato, a mio cognato, ai miei cognati, ai nostri cognati, a mia cognata, a nostra cognata, alle nostre cognate, al mio amico, alla nostra amica, alle nostre amiche, al mio compagno, ai miei compagni, ai nostri compagni, al nostro compagno, alla mia compagna, a nostro figlio, a nostra figlia, a mia figlia [...]"
Va avanti per una pagina e mezza.
Credo d'aver comprato Edmond Ganglion & Figlio, di Joel Egloff, anche per via dell'incipit - che all'inizio avevo scambiato per degli insoliti ringraziamenti -, dopotutto è un libretto che vuole ciondolare tra gli estremi, superarli e sovrapporli come ogni buon grottesco che si rispetti. "Ganglion era uomo d'epiloghi, non aveva mai temuto le situazioni disperate, a terrorizzarlo erano quelle soltanto gravi". E' un becchino, naturalmente. Vedremo se mantiene le (demenziali) promesse - come finisce, insomma.
A proposito di (demenziali) promesse: ieri vagabondando per la Rete, sono incappata nella Despair inc., dove ho trovato superbe ispirazioni per pessimismi di vecchia data, io ne potrei scegliere una al giorno. Ieri ero empaticamente versata a demotivarmi con "potential" o "humiliation" oggi con "mistakes".

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martedì, maggio 15, 2007

Che poi non ve l'ho detto, ma alla soglia dei trent'anni ho scoperto che anch'io vorrei avere una villa in Toscana. Come tutti, sì. Che banalità oscena, vero?
(Embè?)
Ma non sono così generica: la collocherei tra Siena e Volterra. Anzi, non sarei per niente generica: la collocherei tra Siena e Volterra in modo da poter bighellonare dalle parti di un olmo solitario (almeno, mi pareva fosse un olmo - sono sempre recidivamente urbana) scorto in mezzo a una vallata in cui si incrociavano tre tonalità di verde e niente altro. In questi ultimi giorni non faccio che pensare a quell'albero, magari con quell'albero vicino riuscirei a dormire.
Sto diventando come mio padre. Quando io ero bambina e lui un insonne cronico, diceva sempre: dovrei fare la cura del sonno. L'altro ieri mi sono sorpresa a masticare la stessa frase mentre mettevo la roba scura in lavatrice.

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lunedì, maggio 07, 2007

Leggere le dichiarazioni dei nostri politici a proposito della vittoria di Sarkozy, sconvolge l'apatia in cui stavo scivolando. In questo elenco, Di Pietro, solitariamente, dice qualcosa di sensato per quanto lievemente insapore; mancano le dichiarazioni di Diliberto e Bertinotti, e si tiene in conto quella di Borghezio - paesedimerda. E sta bene. Ma è leggere o sentire al telegiornale Fassino che mi risveglia dal torpore. Fassino vorrei prenderlo a schiaffi da mane a sera e poi ricominciare, senza neanche le pause ogni due ore come da legge 626. Dove ha lasciato la memoria (non la coscienza, proprio la memoria), com'è possibile che se ne liberi così beceramente, per assecondare proditorie modernizzazioni? Ha ragione, pure troppo, Daniele Luttazzi (letto grazie a zu qualche giorno fa).

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Il romanzo più sincero e consapevole che abbia letto ultimamente a proposito di razzismo porta il titolo di Cancellazione ed è opera di Percival Everett, autore che ha esordito in Italia grazie ai miei eroi della Instar Libri. Raffinato senza essere sterile, scritto con uno stile lussuosamente semplice, colto, coltissimo, riesce ad alternare ironie graffianti e delicate per trattare il tema dello stereotipo alla base di qualsiasi razzismo.
Mi ha fatto ripensare a quanto avevo letto de I Robinson: che fu nel suo piccolo rivoluzionaria, perché per la prima volta i neri non facevano i negri in una sit-com, ma erano una famiglia benestante, i genitori erano dei professionisti e i figli andavano al college.
E' un libro che mi ha fatto piacere leggere di questi tempi e che vorrei regalare a svariate persone che ultimamente mi hanno troppo spesso incastrata in discussioni a cui non desidero partecipare - sono stufa di trovarmi sempre sola o in minoranza contro la verbosità altrui -, alle quali però non mi sottrarrò mai perché significherebbe un sottinteso allinearsi. Che si tratti di razzismo verso neri americani, cinesi, arabi, per quanto mi riguarda non cambia granché: il meccanismo è sempre il medesimo.

Dal libro:
"Il centro del tronco si chiama durame. Non contribuisce a nutrire l'albero, ma serve a tenerlo in piedi. E' nell'alburno che passano i nutrienti, nella zona superficiale, vulnerabile ai funghi e agli insetti. L'aspetto è simile. Però noi cerchiamo il durame. Cerchiamo sempre il durame."

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Sempre sulle storie dei miei libri.

Titolo sconosciuto (ho già parlato dell'autore, ma chissà quando, anni fa) - manca traduzione

A dieci anni, ero una bambina umbratile e parca. Bambina di parole, bambina di sentimenti intensi, tutti dentro, stipati, poche sbavature all'esterno - non come adesso, che sono eviscerata. Non so se fossero già evidenti i segni del mal de livre, ma fra i vari adulti che i miei genitori frequentavano, più di uno mi regalò cose scritte: chi volle regalarmi un libro perché era convinto che fosse apposta per me, chi decise che avevo già dei gusti letterari quando io ancora non l'avevo capito, chi mi scrisse una poesia con la sua calligrafia sottile.
H. era un ingegnere egiziano, viveva in Svizzera, ed era stato ricoverato nel reparto di mia madre. Ricordo sabati o domeniche a rincorrere i riflessi cobalto sul lago di Lugano, curiosando per la casa-ufficio: fax, carte, tecnigrafo, carte, e Corano. H. non era un ingegnere qualsiasi, aveva partecipato alla rivoluzione che aveva fatto presidente Nasser. Aveva anche scritto un libro per raccontarla: volle regalarmene una copia, nonostante fosse in arabo.
Mi avrebbe fatto felice già avere un libro esotico come non ne avevo mai avuti, ma c'era di più: non potendo regalarmi una traduzione completa, aveva scritto, stampato e applicato sotto ogni immagine una didascalia perché io potessi leggere la sua storia.
La dedica comincia così:
Carina Sara,
ti regalo questo mio libro anche se in arabo, ma sotto ogni illustrazioni c'è l'espegazione in italiano. è una storia a una revoluzione d'un popolo contro il colonalismo nel 1952 [...]

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giovedì, maggio 03, 2007

Oggi però è così che mi sembra di vedere le cose.
Come quella volta secoli fa che ero secca secca e portavo un vestito corto corto, blu elasticizzato, e andavo in giro con una coppia di amici e lui incrociando una tizia per la strada fece signora però quelle gambe secche secche gliele spezzo a mani nude, poi mi guardò e fece il gesto di spezzare con le mani e sorrise solo con un angolo della bocca.

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Allora mi prendo il tempo per un ricordo, così per rilassarmi. Mi è venuto in mente che già anni fa avrei voluto raccogliere brevi storie dei miei libri. Non già quelle che essi hanno serbato e svelato per me, ma quelle che in cui io li ho coinvolti.

Per esempio.
I Buddenbrook, di Thomas Mann.

Al secondo anno di superiori l'amica più devota che avessi cambiò scuola. Si applicò con costanza, i primi mesi, a preservare la nostra amicizia; io non feci altrettanto. Già rassegnata all'avverarsi di semplici probabilità, le favorii: ci perdemmo, trovammo altre persone, non le trovammo.
Un paio di anni dopo, mi citofonò. Se ne era andata di casa, viveva per strada. Stava con un tizio noto nel quartiere per le sue varie dipendenze.
Il presunto tossico era privo di incisivi e canini e più di una volta un (solo) altro bicchiere l'aveva mandato in coma etilico. Lo conoscevo anch'io, avevo avuto modo di apprezzare la sua sensibilità: nel periodo del mio massimo distacco dal mondo, a differenza di altri mi aveva accettato senza pregiudizi, perciò ricambiai.
Un giorno vennero insieme a trovarmi. Lei aveva prelevato i suoi (pochi) averi temendo che i suoi genitori le facessero bloccare il conto e non avendo dove tenerli, mi chiese di custodirglieli. Andai a prendere I Buddenbrook - mi sembrava ironico - e le feci vedere che li mettevo lì dentro, tra le pagine.
Dopo un paio di settimane partii per una breve vacanza. Mentre ero via, lui si presentò a casa mia, completamente sbronzo, a chiedere dei soldi, ma trovò solo mia madre: astemia, con una storica fobia degli alcolisti per via di pessime esperienze passate, si trovava davanti questo sconosciuto rabbioso che pretendeva dei soldi di cui non aveva mai avuto notizia.
Mi trovò solo ore e ore dopo, e non s'incazzò tanto per la situazione quanto per il fatto che, sentendomi colpevole per la mia leggerezza, non sapevo che altro dire a parte: "I Buddenbrook..."

Oppure.
Shangai Baby, di Zhou Weihu

Me l'aveva prestato una collega diventata amica. Io, lei e l'altra, ci trovavamo a cena in un ristorante iperkitsch lungo la strada statale di un triste hinterland, kitsch dal nome sull'insegna alle fioriere di polistirolo, al puzzo misto di fritto e sigaretta che aggrediva all'entrata e s'attaccava ai vestiti. Ridevamo puntualmente fino alle lacrime, stavamo bene.
Poi ci siamo separate e io e l'altra siamo entrate nel loop del bidone, abitudine che ci faceva affini. Io dovevo restituirle Shangai Baby, quindi quando ci davamo appuntamento me lo portavo dietro dalla mattina. Però puntualmente ogni volta che me lo portavo dietro, qualcuna di noi disdiceva l'impegno. Andò avanti quattro-cinque volte, ormai portavo il libro solo per influenzare il destino (non perché non la volessimo vedere, non le volessimo bene, ma per la solita questione che a volte la tentazione del bidone è irresistibile), era un gioco fra me e la mia affine. Non lo portai, e ci vedemmo. Lo portai, non ci vedemmo. Lo riportai, non ci vedemmo. Finimmo per non vederci più e il libro rimase a casa mia, sacro simbolo del bidone.
D'altra parte, il libro stesso era un bidone.

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martedì, maggio 01, 2007

Martedì, prima di partire, volevo dedicare la giornata a costruire me (in altri tempi definita dall'amico dell'amico "la fidanzata emo") in pongo - mancando di plastilina -, per poi denigrarmi su YouTube, ma per fortuna non ne ho avuto il tempo.
D'altra parte io sono una cialtrona, per del materiale con un po' di spessore c'è gente come il maître à tickets che lavora su cose decisamente più toccanti. Allora, in ritardo sul 25 Aprile, ma sempre valida: La mia guerra non è mai finita.

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