martedì, gennaio 25, 2005

Ho chiuso il mio primo libro di James Crumley l'altra mattina, ma con lui non ho chiuso di certo. Il retro di copertina riporta un commento di Neal Stephenson: "Il grande romanzo americano è uscito da un pezzo e ha per titolo "L'ultimo vero bacio"". Leggendolo ho ripensato al commento molto simile che mi era sfuggito altrove terminata la lettura di Michael Collins. Mi ponevo delle questioni oziose sulla natura del Grande Romanzo Americano - d'ora in poi sarà ivi denominato GRA e tirato in ballo ogni volta che mi andrà di applicare un'etichetta. Dato che protestare innocenza fischiettando (in streaming, magari) non mi fa onore, ammetto di avere appena scoperto che in realtà tale acrostica conquista fu già di Philip Roth trent'anni fa. Dici niente.
Letteratura americana ne ho letta in abbondanza, mi sono attaccata a libri e avvinghiata ad autori, e sono piuttosto avara di etichette GRA, che con questi vaniloqui sentimentali non hanno naturalmente niente a che spartire. Le ho applicate a due romanzi noir, però, ed era questa scelta che stimolava la mia vacuità di pensiero. Lo penso come il punto di vista più benevolo da applicare all'America, se non il più verace: peculiarità americana, saga di individui che spalmano ebbre questue su miglia e miglia per spogliarsi di ogni consolazione e non potendo perdonare agli altri ciò che essi stessi sono, ingollano solo polvere di strada.

Insomma ecco la Grande Domanda: sarebbe così assurdo se il GRA fosse racchiuso in un (o nel) romanzo "di genere"?

Che poi, io dicevo che "casa" è dove si pensa di poter essere salvati, anche se non si sa da cosa. Sughrue (vi prego ditemi come si legge) nel libro dice che casa è dove si cerca di farsi passare la sbronza: siamo lì. Anche perché fatti i debiti raffronti, se io frignavo con la testa nel lavandino, lui - bè.


posted by frammento at 15:12  0 commenti