martedì, luglio 29, 2003

tonguetwisting
le désir, un destin à déchiqueter: quelle déchirure, le déchiffrage des deceptions.

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Ulteriori ingombranti prove di frammentarietà [se ce ne fosse bisogno]
Siamo in sei, in un pub; si aggira per il tavolo (fra i boccali di birra) lo spettro della confessione, sempre in agguato in queste occasioni conviviali. Arriva la domanda, all'apparenza inoffensiva: "E tu, da piccolo cosa avresti voluto fare da grande?"
Delle tre donne, la Prima risponde: "ok, non pensate male, non so perchè, io da piccola sognavo il mestiere di spogliarellista,"
[sguardo incredulo del convivente]
"E' veeeero, non chiedetemi perchè..."
Il gruppo, pragmatico, ipotizza: "Magari perchè è disinibita, un po' esibizionista..."
La Seconda: "Allora non pensate male di me, io da piccola sognavo di fare Il mestiere"
[sguardo allarmato del neoconvivente]
"Davvero, volevo fare la prostituta! Non chiedetemi perchè..."
Il gruppo, poetico, ipotizza: "Magari perchè ama tutti senza distinzioni..."
Dopo le prime due franche esternazioni, sono tutti come galvanizzati dall'attesa dell'outing definitivo, tanto che la Terza (io, n.d.b.) si sente in dovere di minimizzare: "Ah, io no, da piccola avevo aspirazioni più ordinarie..."
[ah! cosa? Cosa?!]
"Volevo diventare chirurgo in traumatologia"
[sguardo non ordinario di tutto il gruppo]
Nessuno azzarda ipotesi: "Ma no, vi spiego perchè. Avevo letto, penso su un libro di medicina di mia madre, che ci sono fratture e fratture: io ero affascinata da quelle scomposte,"
[sguardo orripilato di tutto il gruppo]
"applicarsi con taumaturgica precisione (questa era già una preclusione alla carriera) alla cura di quelle schegge - di frammenti, miodio - che lacerano che non si sistemano che non si ricompongono senza una cura estrema"
[sguardo orripilato di tutto il gruppo, Terza compresa: cerca uno specchio apposta per restituirselo]
Imbarazzata, accenna una rettifica: "Per?, un momento, volevo anche fare l'archeologa". Occristo, sempre ossa. "Oppure l'antropologa"
e si ritrova infine a balbettare l'indegna apologia: "ma poi, se invece parliamo di veri sogni, volevo scrivere-"
E tutto si conclude infelicemente con la patetica rievocazione (interiore) del primo racconto scritto.

Inutile dire che nessuna delle tre ha poi mantenuto fede alle aspirazioni dell'infanzia (lo dico per chi si interessasse al numero di telefono delle mie amiche).

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giovedì, luglio 24, 2003


Questo spirito a gradini dev'essere un'altra di quelle migliaia di coincidentali somiglianze. E, detto per inciso e con piazzale Loreto sopra la testa, a rigor di logica (logica di frammento) tante analogie con me dovrebbero ispirarmi diffidenza, malsopportazione o addirittura odio - ma, sarà condivisibile anche questo? trovo che il condizionale sia un modo di coniugare straordinariamente eloquente.

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Ho notato che di recente si attinge volentieri al repertorio cinematografico per scopi promozionali: Totò che comincia a ragionare davanti a un fumigante ammasso di semola di grano duro, la finta Anita Ekberg che trasporta le sue prosperosità per la Fontana di Trevi e via dicendo. Questi sono tributi all'immaginario che ormai fonda la nostra cultura, tutto sommato. E va bene.
Ma Bertolucci potrà considerare come un omaggio l'adattamento delle prime sequenze del suo film "L'ultimo Imperatore" voluto dai pubblicitari di una volpina carta igienica per esaltarne la pretesa setosità??

Ma sì se ne infischierà. Tutt'al più malignerà che forse i copy sono i soggetti più soggetti a perinfezioni.

 

perINfezione, s. f., sommo grado di qualità periferiche ed inessenziali , considerate indispensabili socialmente, avente per conseguenza lo svilupparsi di idee patogene per l'individuo

 


perinfenzione - diagnosi di malacarne


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martedì, luglio 22, 2003

Il tempo, è quello che ci manca. Martin Eden, il personaggio di Jack London di cui sono stata follemente innamorata per tanti anni, si autodisciplinava per dormire non più di 5 ore per notte, perchè troppe erano le cose da leggere, da scrivere. A me non è concesso di dormire molto di più, ma temo che in un'era di progressi scientifici e lessicali questa abitudine sia da ascrivere ad una patologia del sonno e alla sveglia aurorale fraterna più che ad una ferrea risolutezza.
Dicono di noi milanesi che abbiamo l'ossessione del tempo. Per quel che mi riguarda è pura verità. E' un despota che esercita il suo arbitrio nell'incostanza dell'incedere, a causa della cui volubilità ci disperdiamo: perchè il tempo su cui non abbiamo arbitrio è il regno delle potenzialità.
La progressione lineare del tempo non ammette una misurazione esatta della propria esistenza; il quotidiano, colmo di elementari quantificazioni, non è esente da diversioni e scostamenti e sbalzi: anzi, sono esattamente questi a tutelarne lo svolgimento. Sono queste eccedenze, questi avanzi, questi ricircoli periodici privi di sequenzialità, che applicano al tempo una divina sospensione: quella che si emana dall'esasperazione della ripetitività e che nella ripetitività ha il suo antecedente naturale. L'unica garanzia perchè il nostro tempo individuale progredisca, parafrasando Mircea Eliade, è che riusciamo a ricavare al suo interno periodici anelli di tempo alternativo: un tempo sacro, che mima il tempo originario.
Questa avulsione dalla storicità, questo tempo di squisita potenzialità, è la mia furiosa sospensione: è quando leggo e quando scrivo, per esempio.
Pirandello diceva "quando scrivo io mi scompongo". Vero, vero. Io aggiungerei anche "quando leggo". Potrei dire "quando scrivo/leggo io mi deframmento", con un gesto nervoso spazzo via i tasselli accumulati e osservo la dedalica composizione (è irrilevante non scrivere come Pirandello, o in generale non scrivere bene: si tratta di scrivere, tanto basta); mi scompongo in frammenti: e uno è quello del tempo storico, mille altri sono quelli che fuggono categorie e quantificazioni, sono i potenziali tasselli, storicamente negati.
A volte sono come anelli di fumo* che si dissolvono nell'aria avvolgendo un'immaginaria linea di pensieri.

Un tassello/
Lafcadio Hearn curò stupende raccolte di leggende e storie popolari giapponesi e in una di queste ho trovato il racconto di cui trascrivo un estratto.
E' intitolato - guarda caso - Frammento

"Non hai ancora capito su cosa stiamo camminando. E' una montagna fatta di teschi" ribattè il bodhisattva, " ma sappi figliolo, che tutti costoro non sono altri che te stesso! ognuno di questi teschi è stato in un dato momento la culla dei tuoi sogni, delle tue delusioni, dei tuoi desideri. Neppure uno di questi teschi appartiene ad altro essere umano se non a te. Tutti, tutti senza eccezione sono appartenuti a te nelle miriadi di vite precedenti"

*che in undici anni di tabagismo non mi hanno mai fatto onore, perchè ci vuole disinvoltura se non una certa femmefatalité.

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venerdì, luglio 18, 2003

Basta con questa serendipità: è pervasiva, persuasiva, ricorsiva. Brezsny non mi aveva preparato a questa tempesta di caosualità. Certo, in compenso si auspicava che facessi almeno il tentativo di non comportarmi "come uno che canta tristemente mentre cammina in catene sotto il sole" - e io non capisco com'è che con tutte le verità che stilla sul mio conto, non mi sono ancora convertita alla fede astrologica.
Giuro che non ne farò più menzione, però come posso tacere di questo? Ieri, mentre mandavamo sprezzantemente all'aria un bivacco di acari in una libreria remainder, redattor zop si è messo a rovistare con scetticismo e a un certo punto ha estratto il braccio da una pila di volumi come fosse stata la bocca dell'oracolo e ha divinato: "noooo, questo è per te!".
Era, effettivamente, per me. Una bellissima raccolta d'arte mosaicale contemporanea intitolata: "Frammenti di un discorso musivo".
Adoro trovare tasselli della mia frammentarietà.

Poi, oggi mi dedico, mi canto, faccio cantare per me Giovanni Lindo Ferretti

Osservo con timore Bolormaa la Contorta
Concetto fatto carne nervi viscere legamenti
Sinuoso movimento
Monito terrorista che la retta è per chi ha fretta
Non conosce pendenze smottamenti rimonte
Densamente spopolata è la felicità
Preziosa
La felicità è senza limite e viene e va
Viene
Viene e poi se ne va
Splendida Bolormaa arresa all'amore
Fluida contorta molle resistente
Lascia fluire il dolore
Che la felicità è senza limite
E va e viene
E va e viene


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martedì, luglio 15, 2003

Stamattina ho rischiato di tamponare una Smart dei Servizi Funebri XYZ. Come non lasciarsi turbare dalla mesta considerazione che il nanetto Praseidimio potrebbe esserne l'unico possibile passeggero orizzontale?

In realtà ero ancora perplessa sull'interpretazione di un particolare della serata di ieri.
Cena aziendale: l'azienda ha dimensioni infinitesimali, sicché quando il mio vicino si alza e saluta con un certo ragionato tempismo, scatena in me un terribile horror vacui. Un solo posto a separare me e il capo. Sospetto che stia meditando di occupare quel posto e sfoderare il refrain di tutte le cene che abbiamo condiviso chiedendomi se finalmente ho rinnegato le mie note preferenze elettorali; vuole attirarmi nella spirale di indignazione reciproca (benedico la presenza di una mia collega) che versa regolarmente ad un implausibile agone politico.
Naturalmente il timore era fondato e il momento culminante della discussione - allo stesso tempo il più infimo - è stato quello che m'ha lasciato assolutamente disorientata e con lo scottante quesito:
- Cosa fai, se a metà di un monologo liberalmente, globalmente, etnocentricamente arrogante dici al tuo capo con un certo disprezzo sei tale e quale al tuo Presidente e lui raccoglie la tua mano dal tavolo e la bacia con gratitudine?
...

Una risposta potrebbe essere prendersi qualche giorno di ferie e darsi la dolce morte attraverso deliquiali amacature

 

amacatura, s. f., ematoma reticolare provocato da eccessivo uso di amaca

 


[grazie bruno]


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lunedì, luglio 14, 2003

Venerdì un mio collega m'aveva proposto di dedicare la pausa pranzo di oggi all'allenamento - al suo allenamento: in pratica, lui si proponeva di portare il colpitore e a me proponeva di reggerlo e incassare. Non era prevista la presenza dei miei poco (e male) usati guantini da boxe. Io a dire il vero l'avevo prevista, così, giusto per lo spettacolo, dato che sono del tutto imbelle (qualcuno suggerisce di incastrare un'enigmistica sillaba "ci"), ma un suo cenno infastidito ha fatto intendere che attuare il proposito avrebbe fatto precipitare il coefficente della sua stima di me verso l'abisso, quasi come i punti delle patenti bresciane da quando sono in vigore le nuove normative - a sentire i tg, Brescia è una fonte di record ogni giorno più sorprendenti.
Ma stamattina ogni timore è svanito, non ho neanche cercato d'arrivare in anticipo per tentare qualche manomissione a mio favore: è tutta questione di karma.
Carissimo, a che ti serve il colpitore quando posso essere il tuo perfetto mook yan chong (però è concesso l'ultimo vezzo di una cerimonia del té con gli amici più cari)?


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venerdì, luglio 11, 2003

Un mio commentatore folle, un génie du commentisme, vicomte de Comburg, suggella il racconto delle mie avventure serendipiche ornandole con un bijoux ipotestetico.

 

ipotestètico, agg., francesismo [adattam. dal fr. hypothéstetique der. dal fr. hypothétique, propr. «ipotetico» e esthétique, propr. «estetico» adatt. dal greco hypos «sotto», aisthetik?s «estetico» e ethik?s «proprio dell'etica»], - 1. In ambiente ipogeo o comunque generalm. sotterraneo prefer. di tipo urbano, quali sono per es. la rete ferroviaria metropolitana, la rete fognaria monumentalizzata urbana (antonomastic. quella della città di Parigi, con svariati rimandi lett.), e per est. di tipo religioso, catacombale e similari di colui o colei con cui si presume, si ipotizza o, nei casi estremi, si ipostatizza per postulato serendipico di condividere analoghi gusti estetici risultanti da fugaci sguardi su testi dei quali nel medesimo ambiente si sta eseguendo la lettura. 2. Est. anche nei luoghi di trasporto urbano di superficie, di trasporto extraurbano, in periodo di vacanze nei luoghi di trasporto navale e aereo e più in gener. nei luoghi di ritrovo pubblico quali caffè, sale da thè ecc...

 


(Nota del lessicografo: il confronto ipotestetico non dà garanzie, e, ahimé, spesso cocenti delusioni)

E io davanti a tanta sapienza lessicografica sbianco, trasalisco. Poi, nella mia inettitudine comunicativa, per schermirmi mi schernisco, a mio modo sgrammatizzo.

Per essere filologicamente attendibili bisogna riportare uno stralcio minimo di conversazione:
c: ma tu, ti scheNisci o ti scherMisci? Chiarisci, please, te ne prego [...]
f: hai perfettamente ragione, me tapina. ma sai una cosa? sono due attività che
porto avanti parallelamente, schermirmi e schernirmi, e trattandosi di
attività che si fanno beffe della geometria euclidea sono parallele che
alla fine si intersecano, e finisce cos? che sgrammatizzo


 

schermnirsi, v. intr.,1. Trattasi di
attività che si fanno beffe della geometria euclidea in quanto parallele che alla fine si intersecano e provocano uno o più sgrammatizzi (v.). 2. In psicol., il riversare su di sé attività di protezione autolesiva oppure, a seconda dei contesti, di autolesionismo protettivo. 3. In epistolograf. non darla vinta nemmeno un po' a chi ci fa osservare affettuosamente una nostra svista

 


 

sgrammatizzare, v. intr., 1. incorrere in strafalcioni innocui e tuttavia esecrabili perpetrati nell'emergenza autoironica a fini difensivi 2. mitigare l'impatto delle proprie affermazioni con un uso eterodosso degli strumenti grammaticali in una sorta di umorismo dialetticamente masochista

 


[in azzurro, made in COMBURG]

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giovedì, luglio 10, 2003

Sempre in relazione alle occasioni perse, credo che quello di stasera sia almeno il decimo concerto di Ryuichi Sakamoto a cui NON vado (ovvero non sono mai riuscita a vederne uno).
Che vita in levare!

A proposito, qualcuno può informare chi ha curato l'articolo dedicato al concerto sul Vivimilano versione cartacea, che il nome del primo album in collaborazione con i Morelembaum è "Casa", non "Cosa"? E' una sostituzione semanticamente quasi sgradevole.
D'accordo, sempre meglio che se avesse equivocato con "Cisa" un coraçao vagabundo sulle tortuosità autostradali dell'Appennino Tosco-Emiliano...


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mercoledì, luglio 09, 2003

So che sarebbe chiedere troppo, ma mettiamo che il mio ciondolo attira-serendipità non abbia ancora esaurito la sua carica benefica.

Ieri sera, tornando dal lavoro, mi sono accasciata su un posticino libero della prima carrozza del metrò, fermata Wagner. Il mio vicino di posto (giovane, capello mediamente lungo, occhialuto) sta leggendo un libro. Sbircio con discrezione, troppa discrezione, vai a capire cosa sta leggendo, intravedo solo un “Heather”. Ho da leggere anch’io, chetticredi. Anzi, estraggo dalla borsa con liturgica solennità il libro appena acquistato, che attende un dibattito. Il vicino sbircia senza discrezione. A Cadorna si alza per scendere, io approffitto per lanciare uno sguardo privo di inibizioni alla copertina del volume. Invano. Anche perchè, una macchia di giallo mi distrae: è un cartello segnaletico librocorsaro che mi ricorda che oggi è martedì 8 e io sto disertando per l’ennesima volta...

Ecco, mon hypothétique lecteur, mon semblable, mon frère, solo questo, se passi di qui, fai un saluto. Io leggevo “Variazioni sulla scrittura”, R.B., so che lo sai.




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lunedì, luglio 07, 2003

Ho appena terminato il delizioso Vita di Pi, di Yann Martel: a tratti rivoltante, specialmente per chi è vegetariano come la sottoscritta - ho dovuto scorrere qualche paragrafo frettolosamente per non soccombere a un conato ininterrotto - eppure delizioso. Fresco pur narrando di sete inestinguibile, arsura e deriva nell'immensità, in tre delle sue misure: l'immensità di solitudine e sale dei flutti oceanici, l'immensità dell'elevazione spirituale, il congiungimento nella religione di creatore e creato e l'immensità dell'abiezione a cui il desiderio di sopravvivenza induce.
Tre misure per la stessa incommensurabilità.

[...] Le persone emigrano perchè logorate dall'angoscia. Consapevoli che i loro sforzi non serviranno a nulla, che quello che riusciranno a costruire in un anno verrà distrutto da qualcun altro in un solo giorno. Convinte che il futuro sia ipotecato, che con un po' di fortuna forse loro potranno farcela, ma non i loro figli. Intimamente certe che a casa nulla cambierà, che possono essere felici solo altrove [...]

Pensavo a questa frase, appena letta sul libro di Martel, l'altra sera mentre un signore bengalese ci porgeva la nostra cena fumante e speziata nell'alluminio da asporto e io indugiavo sulle immagini induiste e le foto di Gandhi.
Poi una coppia di ragazzi è uscita dal locale insieme a noi, e lui ha detto: "F*g*! mi sorridono, mi stringono la mano, mi aprono la porta... non sono mica abituato, mi hanno quasi fatto sentire un essere umano, porco ***"
Ho smesso di ridere solo a casa perchè mi stavo strozzando di chapati.

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venerdì, luglio 04, 2003

tu chiamale, se vuoi, agnizioni
Chiamale come ti pare, ma il primo scambio di mail fra auro e me, per tentare un incontro con la scusa del bookcrossing, risale a marzo.
I tentativi fallivano puri e radiosi come fiori di ciliegio, ora lo so, in attesa di una serendipica (?) rivelazione: presentarci ieri a metà di un boccone. Poco chic? Tutt'altro. La casualità a volte ha una squisita eleganza.
E' comunque sintomatico che uno dei due fattori di una tale procrastinazione sia io, dato che solo ieri, a circa un anno dall'inaugurazione della nostra corrispondenza elettronica, ho avuto il piacere di conoscere il 101ist (per me un gran piacere) che spero non sia rimasto eccessivamente traumatizzato dalla mia concitata materializzazione. E' una speranza che coltivo soltanto perchè il soggetto ha coscienza del fatto che la perfezione è manierismo.
E poi ho rivisto analize, che dai tempi del Blogage... Ma, perchè sembra sempre cos? difficile mettersi d'accordo per una birra?

Infine ringrazio zop - per tante cose tante, quasi cento miliardi.


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mercoledì, luglio 02, 2003

Una delle favole che amavo di più, ne "I Raccontastorie" era quella di Praseidimio, in cui un nano meschino (...) stringeva un patto con una fanciulla regale, secondo il quale se ella non avesse indovinato il suo nome le avrebbe strappato il figlio neonato. Non ho progetti di sequestro, né pesterò i piedi fino a sprofondare nella viscere della terra (co' 'sta falda) - e soprattutto NON SI VINCE NIENTE (che bel gioco) - ma comunque
giochiamo.
Il mio nome, quand'ero bambina, non mi piaceva e l'avrei scambiato volentieri con altri che mi descrivessero meglio. Mi sembrava un nome poco originale, non era versatile, c'era poco da abbreviare; gli si potevano accordare solo dei vezzeggiativi moderatamente infantili ma niente a cui posporre una pretenziosa magari anglofila y, pareva un nome quasi démodé. E allo stesso tempo mi sembrava inadatto alla maturità, non lo vedevo definire lineamenti grinzosi, né lo vedevo a didascalia di una saggia esperienza di vita. E poi, la canzone di quel romano, c'era sempre qualcuno che la intonava quando mi presentavo, pensando fosse un'intuizione esclusiva. A volte c'è chi lo fa ancora oggi, magari quando il mio sguardo s'accende di stupore o d'ingenuità, allora cerco di figurarmi che si sia appena alzato dal letto di un coma ventennale ed esibisco un sorriso compassionevole.
Sono tuttora convinta che non ci sia corrispondenza fra nomen e omen ma col tempo ho smesso di trovarlo un brutto nomen. Non è mai stato démodé, è semplicemente antico, di più, antichissimo, addirittura biblico. Mi sembrava inelegante, poco congeniale al lavorìo romantico della fantasia e approvavo l'uso di un nome fittizio per la donna nell'amor cortese. Ma in realtà il suo significato è di rango.
Quindi, in fondo la mia insoddisfazione era un inganno e dopo tutti gli anni in cui è stato pronunciato con affetto, con irritazione, con condiscendenza, con costernazione, con rigore ufficiale, con disperazione, con supplica, con amore, forse il motivo per cui a volte ancora non mi ci ritrovo è la mera questione etimologica.

[è un gioco che qualcuno m'ha proposto ;)]


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martedì, luglio 01, 2003

Ho letto qualche tempo fa "La nobiltà della sconfitta", in cui Ivan Morris documentava la sensibilità giapponese per l'etica del perdente* raccontando la vita di alcuni perdenti esemplari, quelli che sono diventati archetipi d'eroe nipponico proprio grazie a dei fallimenti eclatanti: colpa e merito di un destino troppo esigente, dell'anacronismo delle cause a cui si votarono, della sincerità d'intenti e dell'integrità morale (il famoso makoto).

Associando le due letture probabilmente solo per contingenza, ho annotato quanto diceva Efraim Medina Reyes su un vecchio numero di Internazionale:

Come le disgrazie non trasformano lo stupido in genio, cos? nemmeno la guerra, il sequestro e la morte hanno frenato la voracità di potere, la disonestà e l'egoismo della nostra classe politica. Ma, al contempo, questa distruzione (e quella che verrà in seguito) ha dato alla maggioranza dei colombiani (inclusi settori dell'alta società) una chiara coscienza di nazione e la certezza che nessuno è più intoccabile, che non si tratta di una zuffa tra contadini, che siamo coinvolti tutti e che, per quanto crudele e ottuso sia il conflitto, ha messo a nudo le nostre terribili miserie.
Noi colombiani comuni, che non siamo industriali né politici schifosi, che non riceviamo onorificenze né conversiamo con i delegati del primo mondo, sappiamo di essere soli. Non sbroglierà la matassa per noi nessun aiuto umanitario, che spesso serve solo per far venire qui gli europei grassi, vecchi e brutti a conquistare amanti giovani e belle vinte dalla povertà. Dobbiamo far fronte noi a questo groviglio di guai, anche se una sera qualsiasi, tornando dal lavoro, rischiamo di saltare in aria e diventare laconici titoli della stampa mondiale, senza sapere che diamine abbiamo fatto per crepare cos?


Questa quotidiana resistenza non accumula scampoli di futuro glorioso, fronteggia il presente con eroismi microscopici, microepici, non guadagna nessun titolo se non eventualmente quello sul giornale - che piccola storia ignobile ci tocca raccontare, l'ignobile beffa di essere sempre affamati, sempre in pericolo, sempre superstiti, sempre tanti ma soli, perennemente coinvolti, essere eroi semplicemente perché non si è rei.

Una frase che m'è sempre piaciuta fra le tante che mi son sempre piaciute di Fabrizio de André, era dedicata all'utopia:

L'uomo senza l'utopia sarebbe un motruoso animale fatto di istinto e raziocinio...una specie di cinghiale laureato in matematica pura

Personalmente la trovo significativa per l'accostamento di matematica pura e utopia, due termini che, per quanto mi riguarda, evocano concetti con lo stesso indice di irraggiungibilità.
C'è qualcosa di eccellente nell'utopia come nella matematica e questa eccellenza mi vien da pensare che sia da ricercare nell'inestricabile correlazione di astrazione e concretezza. Un continuo sfiorare di confini invisibili che in luogo d'attestare l'immutabilità di una maglia deterministica, ne scioglie i grovigli e allude all'esistenza di un confine per sua natura inarrivabile. E la meraviglia è che quest'allusione è già abbastanza di per sè, è lo sprone.
Parte del fascino consolatorio delle parole di De André deriva dal fatto di ritenere l'utopia una prerogativa dell'uomo in generale, o se preferite degli uomini tutti: sebbene, per chi si trova a dover essere eroe suo malgrado per necessità quotidiana, questo miscuglio di speranza e ideale sia una carezza aspra. Al contrario, per chi è eroe per volontà o per professione è una disciplina indispensabile, da coltivare attraverso un atteggiamento utomistico.

 

utomistico, agg. [pl. m. -ci], che comporta dedizione spirituale totale a ideali di supposta, se non evidente, impraticabilità, spesso altres? denotata da un sembiante iniziatico

 


* c'è anche una parola specifica per definire questa sensibilità: houganbiiki, la predilezione per il tenente, predilezione priva di equivoci, essendo semplicemente quella simpatetica verso un glorioso perdente (il caso all'origine dell'espressione è quello del tenente Minamoto Yoshitsune)

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