venerdì, febbraio 28, 2003

Alla fine, al richiamo di 'They have a word for it' non ho resistito a lungo e sono andata a cercarlo su Amazon Uk. E Amazon mi ha prontamente (bè) recapitato questo originale dizionario, a cui attingerò per darmi un tono sempre più cosmopolita.
Più che un dizionario è un'avvincente collezione di parole che non hanno traduzione specifica in inglese e che sono saggiamente raccolte in base al contesto in cui si utilizzano e al carattere sociale che assumono e, a parte il gusto antropologico di certe definizioni in sé, è affascinante leggere del potere terribile, magico - terribilmente magico - della parola in alcune società, o la sintesi di un comportamento 'tipico' in un vocabolo.

Ora come ora, sono esausta. Mi addormenterei volentieri nella speranza di sognare il mio ngarong (un consigliere segreto che appare nei sogni - Dyak del Borneo) che mi portasse in dono la possibilità di guadagnare quanti più mamihlapinatapei (intenso scambio di sguardi fra due persone che esprime sentimenti reciproci non detti - Tierra del Fuegan) possibile...


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giovedì, febbraio 27, 2003

L'altra sera alla Feltrinelli si è voluto porgere un piccolo ma sentito omaggio a Raymond Queneau nel centenario della sua nascita, e N O I abbiamo assistito.
Com’era inevitabile raccontando di Queneau, della sua opera e del Laboratorio di Letteratura Potenziale (Oulipo), Stefano Bartezzaghi ha abbozzato un discorso sui 'fous littéraires', quei letterati atipici e appassionati spesso ideatori di creature e capolavori fittizi, simulazioni letterarie, fantasticherie, colti divertissements.
Mi ha fatto ripensare ad alcune letture.
Ad esempio, un libricino di Georges Perec e Jacques Roubaud il cui esiguo numero di pagine viene moltiplicato esponenzialmente da potenziali interpretazioni e rimandi bibliofili. In “Viaggio d’inverno / viaggio d’inferno”, Perec racconta di tale professor Degrael che, ospite per una notte a casa di un collega, trova nella biblioteca da lui ereditata l’opera di un poeta sconosciuto, tale Vernier, che sembra aver riassunto nei suoi componimenti i migliori versi della poesia francese dell’’800 anni prima che essi venissero pubblicati dai rispettivi autori (Baudelaire, Mallarmé, Gautier, Lautréamont…). Perec insinua l’idea di un “plagio per anticipazione”, intessendo le trame misteriose di una macchinazione letteraria che viene poi svelata nella seconda parte del racconto ad opera di Jacques Roubaud, senza lesinare sul giochi di rifrazione fra realtà e finzione.
E la rivelazione sulla genesi di tutta la poesia simbolista e parnassiana, intrecciata con geniale studio combinatorio di versi e abilità nella contraffazione bibliografica, è una squisita burla Oulipiana. Tipica Oulipiana e in omaggio all’Oulipo stesso, come si deduce dalla lettera in cui il misterioso Vernier spiega la sua misteriosa antologia di versi celebri:

[..]Con ognuna di queste parole fate la poesia. Prendetele come volete, purchè rimino. Da due a quattordici versi, tutte le poesie sono possibili e tutte le combinazioni di rimi possibili. Mi si dirà che prendo a prestito una linea già tracciata, un solco già largamente scavato dai miei predecessori: Meschinot, Putanus, Kenellios* Khulmann. E’ vero, avrei potuto, trascrivendo 10 sonetti apparenti, offrirvi il dono potenziale di cento miliardi di poemi… […]

* leggo nelle note che quelli citati sono ovviamente dei camouflages – ouais! – per cui Kenellios è proprio Queneau

Nella stessa collana un altro pregevole racconto bibliomane è quello della caustica Amélie Nothomb (di cui però ho apprezzato maggiormente “L’igiene dell’assassino”, sebbene la scelta dei dialoghi sia sempre magistrale), “Libri da ardere”. Ma forse è poco pertinente con ciò di cui stavo scrivendo. Diomio, cosa stavo scrivendo?
Ah, giusto, della magnificenza di certi trompe-l’oeil letterari che spesso non solo hanno entusiasmato, bensì sono riusciti ad ingannare un pubblico più o meno consumato… tralasciando (per rispetto, chetticredi) le “finzioni” – omonime - di Borges, i libri/luoghi incastonati di Calvino, i complotti templari di Eco, il discorso del Bartezzaghi ha richiamato alla mente le testimonianze “esemplari” e le indagini di due autori ispanofoni piuttosto originali.
A Enrique Vila-Matas ho già accennato altrove, ma è il caso di ricordare che ha “redatto” una Storia abbreviata della Letteratura Portatile (ispirata Da Tristan Tzara) che mischia inquisizioni storico-letterarie scrupolose ad una altrettanto circostanziata e completamente futile aneddotica, dall’effetto straniante. E poi ha scritto ‘Suicidi esemplari’, dieci brevi racconti in cui si fa immaginario testimone di suicidi (pare che veda nello scomparire o nel ‘negare’ un coronamento: dopotutto, “Bartleby e compagnia” è una specie di antologia di letterati che alla letteratura hanno rinunciato).
Infine, per affinità di titolo e di argomento ho pensato a Max Aub, altro prolifico artefice di clamorose divertenti fittizie costruzioni letterarie, autore di “Delitti esemplari”.
Ne cito giusto un paio:

“Lo uccisi in sogno, poi non potei fare altro che sopprimerlo sul serio”.

“Ci provi adesso a fare sciopero”

“Russava. […] Non potevo più dormire: se russava, per il rumore; se non russava, nell’attesa del rumore. Se picchiavo sul muro , smetteva per qualche momento, ma subito ricominciava…. Voi non avete idea di cosa sia fare la sentinella a un rumore […]La fucilata gliela tirai con la carabina di mio nipote”

“Parlava, parlava, parlava, parlava, e parlava. E seguitava a parlare. […] Parlava di tutto, di qualunque cosa, per lei era lo stesso. […] Veniva persino in bagno: e questoe quest’altro e quest’altro ancora. Le ficcai un asciugamano in bocca perché smettesse. Non morì mica per questo, ma perché non riusciva più a parlare. Le scoppiarono le parole dentro.”

--------- e allora io ho aggiunto:

"Lo uccisi perché sapevo che altrimenti l’avrebbe fatto lui: aveva detto che mi trovava talmente insignificante da non aver diritto di vivere. Talmente insignificante da non sospettare la mia collezione di lame di Toledo."

"Era sempre noiosamente impeccabile; sempre puntuale, sofisticata, spocchiosa. Sapeste com’era scomposta e volgare precipitando dal 5 piano!"

"Era così scemo che mi son sempre chiesto cos’avesse nel cervello. Allora ho preso una mazza da baseball… bè, era davvero poca cosa."

"Sembravano mille in quella maledetta topaia. E sbronzi tutte le sere! feste, baccano, risate sguaiate, una cagnara intollerabile… almeno quanto il terribile pop sudamericano con cui ci torturavano. Io mi devo alzare presto, la mattina. Quelle bottiglie che scaricavano per strada hanno fatto proprio a caso mio."

“Sei proprio ridicolo, mi fai morire!” Detto, fatto.


E poi. Di blogger ne leggo mica pochi (non mi ammazzate, ragazzi, si fa per ridere, so’ giovane e stupida) e magari potrebbero dire :


Alfo. Non era d’accordo con me ma perché potesse esprimere la sua opinione avrei dato la vita. La sua, intendo.

Zop. Lo uccisi… perqueneau...? dovevo pur tenermi in esercizio.

Giorgia MU: lo uccisi così, per NULLA.

Marquant: Non taceva mai durante i film. E “sai cos’ha detto il Porro di quest’ultima performance di X”, e “è veramente deplorevole la scelta dei costumi”, e “imbecilli! Hanno tagliato quella scena d'antologia in cui…”.
Ed era abbonato a tutto il ciclo di proiezioni!
L’ho aspettato all’uscita e l’ho ammazzato a colpi di Mereghetti.

Marmaid: Stendeva sempre nello spazio a me riservato! era diventata un’ossessione affacciarmi alla ringhiera e trovare i suoi miserabili straccetti sui miei fili. Con uno di questi l’ho strozzata.

xconfusa: lo uccisi… (ops)


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giovedì, febbraio 20, 2003

Dopo aver trovato un MacUbu natalizio entusiasta di Ali il Magnifico, era diventata d’uso in libreria la sosta a sfogliare il poderoso volume fino a che con un frenetico sbattere di ciglia non sono riuscita a ipnotizzare qualcuno, che ha sacrificato le sue tessere punti Feltrinelli per farmi un regalo. E non è stato un sacrificio inutile: il libro è sorprendente e io sono conquistata da questo racconto di periferia, dal racconto di questa periferia, per niente bonaria, per niente arrendevole, per niente semplice.
Certo, il fatto di leggere del giovane assassino amante di giacche Helly Hansen che uccide con sacchetti di plastica firmati fa sì che chiedendo scusa per un gomito infilzato appunto in un dorso HH, si sgranino gli occhi per accertarsi con qualche apprensione della mancanza di sportina del materiale incriminato…
Il luogo raccontato è la banlieue di Parigi, così poco splendida appendice della ville lumière, così simile a quella di qualsiasi metropoli, non importa quale, anche Milano… immersa in questo romanzo, non ho potuto ignorare un articolo di Carnet (a cui due cari amici mi hanno abbonata, yup), sull’ultimo lavoro di Gil Bensmana, artista francese di origini algerine, come Ali.
Qualche mese fa Bensmana ha ottenuto un modesto finanziamento per realizzare il suo progetto in un comune satellite della banlieue, Romainville, zona Gagarin (sempre nomi che richiamano ‘il sogno’ per luoghi tutt’altro che romantici, come Ali che vive a ‘i Poètes’): l’idea era di trasformare i muri dei palazzoni popolari in una sorta di galleria pubblica per chi non ha la possibilità o l’abitudine di visitarne, dove le immagini affisse fossero speculari alle strade. Una buona idea, che prende le mosse da ciò che ha maggiore visibilità oggi, ciò che non si sceglie di vedere per strada, i cartelloni pubblicitari - la pubblicità, le firme, gli spot che influenzano Ali - e sceglie di far coincidere pubblico e soggetto.
Coltissimo Smaïl, convulso il romanzo, le parole gridate aspre. E impressionanti le installazioni di Bensmana, tanto pregnanti, tanto delebili e a maggior ragione tanto forti, realizzate come dono alla Parigi degli anonimi variamente etichettati (spesso in modo improprio, spesso semplicemente offensivo) perché potessero ‘mostrarsi’, senza particolari intenti sociali, imposti ai muri senza didascalia. Perché io valgo


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mercoledì, febbraio 12, 2003


Dato che zop non ne sa niente...

In occasione dell'anniversario della nascita di Queneau il 21 febbraio, Feltrinelli organizza un piccolo festeggiamento :)




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martedì, febbraio 11, 2003


Lu Ji, ne "L'arte della scrittura" (Cina, III sec.). Non dovrebbe valere solo in letteratura, ma non ne sono ben certa :)

Dal non essere nasce l’essere;
dal silenzio, lo scrittore genera una canzone [...]

Incalzare le emozioni
è un errore
che induce errore;

lasciarle emergere
naturalmente
significa lasciarle emergere con chiarezza.

La verità della cosa
è dentro di noi,
ma nessuna forza al mondo può costringerla
a uscire.



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sabato, febbraio 08, 2003


L'altro giorno mi sentivo come in uno spot, uno del genere Birra Peroni.
A dire il vero, mi sentivo proprio come nello spot Peroni, nel pezzo in cui si vede la bionda seduta a un tavolo con il nonno e in fading in (& out) la scritta 'la mia enciclopedia' o qualcosa di simile: ci vedevo bene me e mio padre, l'altra mattina al tavolo della cucina a fare colazione, sebbene la somiglianza fosse in qualche modo latente. Forse sarebbe stata più manifesta se non fosse che a colazione non bevo birra e che non sono certo bbona come la modella (va bene, non sono bbona punto), né mio padre è così vecchio - ma di questo si può tranquillamente incolpare l'ottico che da qualche anno gli rifila delle montature infìde (anche ibrìde) che nell'espressione dell'attenzione me lo invecchiano.*
Questa parabola pubblicitaria era sicuramente una inconscia attestazione di stima nei confronti di mio padre, che a volte appare gloriosamente nelle vesti dell’arcangelo Treccani:
bevendo il caffè gli ho passato ‘Le linee d’ombra’ di Ghosh per fargli leggere almeno l’articolo in appendice e quando stavo per uscire mi ha fermato sulla porta per raccontarmi un passaggio di un altro libro che gli era rimasto impresso e che ora gli era venuto in mente. Dev’essere scattata qui l’immedesimazione col duo Peroni: mi ha raccontato di quest’immagine che gli era rimasta impressa, e che era parte dello splendido racconto dell’indipendenza dell’India che fa Dominique Lapierre (con Larry Collins), nel suo “Stanotte la libertà”. Che ho letto, apprezzato e che è andato a intrecciare le sue cronache con quelle degli altri scritti che mi hanno turbata.
Non ho scoperto niente, ma… quando mi appassiono a qualcosa divento altamente suggestionabile e vagamente teatrale e in omaggio a Ghosh e al suo meraviglioso libro mi son messa a ricalcare i gesti del suo personaggio: con gioia del mio arcangelo, ribattezzato per l’occasione “Sormani”, all’emeroteca civica mi sono fatta consegnare microfiches su microfiches di vecchi quotidiani e a casa ho cercato invano il mio atlante delle elementari con linee di confine oggi fantasma e altre solo sospettabili.
Le Linee d’ombra, appunto. Non le ho rincorse col dito sulla carta liscia a colori pastello, mi son piuttosto lasciata catturare dalla cartina ‘fisica’ colore dell’acqua, dei rilievi, dell’erba, della terra. Il colore del suolo calpestato da uomini e bestie, in cui affondano le radici delle piante, in cui si conficcano gli attrezzi di lavoro che ne scalfiscono appena la scorza, dove i solchi più profondi sono nelle zolle concimate a sangue dai milioni di umani che si odiano, si umiliano, si massacrano ancora oggi.
Che idea parziale che si ha di questi paesi distanti, che idea distorta. Una congerie di luoghi comuni che convergono a sostegno del proprio personale fantasma dell’esotico. Le enormi entità da affrontare non aiutano certo la sintesi, tutto è immenso, le masse, le distanze, le belve, la mole dei secoli, la raffinatezza, la povertà, il misticismo, i santi. O le leggendarie dimensioni dei diamanti dei maharajah, la cui stima e durezza hanno un adeguato corrispettivo solo nell’insostenibile dimensione degli orrori della fede.
L’uniforme elefantiaca dimensione dell’orrore, del fanatismo. Ma dev’essere fanatismo nella sua espressione più bieca, (o cinica sconsideratezza o autolesiva ingenuità?) quella che illude di poter delimitare, di poter apporre con l’inchiostro confini innaturali, di convertire in una linea di contorno la definizione dei popoli e della loro storia, e in essa esaurirne le esigenze e l’identità.
India (Kashmir!), Pakistan, Bangladesh e perché non Serbia, Croazia, Bosnia, Kossovo. E perché non Israele, Palestina…
La geografia è importante (come le parole)!

* quando è attento e si dedica all'ascolto completamente, così completamente che deve prodursi nel gesto dell'occhiale, cioé piegare la testa in modo che esso scenda a metà naso per guardarmi da sopra la montatura, perchè per ascoltarmi bene mi deve guardare in faccia.


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lunedì, febbraio 03, 2003

Sto leggendo Felicità dell’esordiente romanziere Will Ferguson, divertente satira sul mondo editoriale e sul mercato della manualistica di auto-aiuto, mercato che si nutre del nostro insaziabile desiderio di felicità. Il Guccio direbbe “felicità, che sappiamo soltanto aspettare cercare già fatta, quasi fosse l’anagramma perfetto di facilità, barando su un’unica lettera”. Io, per rimanere fedele a questo concetto, la mia felicità facile l’ho soddisfatta nel modo più impulsivo e immediato: c i o c c o l a t o. Perché sono succube delle copertine accattivanti, ma soprattutto del cioccolato. A questo punto della mia vita, se incontrassi Juliette Binoche con bambina e canguro immaginario e magari cioccolataio dello spot Lindt al seguito, penso che li prenderei a pagayate per ripicca (pagayate?? La scelta lessicale dimostra quanto in realtà io sia innocua).
La teoria su cui è costruita il romanzo è quella che essendo la nostra società basata sul desiderio di felicità (spesso identificata in ‘cose da acquisire’ o ‘consumare’), se un giorno non avessimo più bisogno di cercarla grazie a un manuale definitivo che la facesse dilagare epidemicamente, crollerebbero l’economia e la società stessa.
A me viene in mente Bryson in “America perduta”: “la gente compra sempre quello che desidera, subito, senza valutare se è utile o meno. C’è qualcosa di terribilmente preoccupante e spaventosamente irresponsabilein questa autogratificazione senza fine, in questo costante appello agli istinti primitivi. […] Tutta l’economia si basa sul soddisfacimento dei desideri ardenti di quel due per cento della popolazione mondiale. Se gli americani improvvisamente smettessero di soddisfare i loro intensi desideri o non avessero più sgabuzzini, il mondo cadrebbe in rovina [..]
(oddio, di Bryson potrebbe venirmi in mente anche: “Mentre gli altri esploratori rientravano in patria con nuovi ed esaltanti prodotti quali le patate, il tabacco o le calze di nylon, tutto ciò che Colombo riportò furono degli indiani dallo sguardo stralunato – indiani che credeva giapponesi (“Coraggio ragazzi! Fateci vedere un po’ di sumo!”).

Il libro lo sto finendo e quando sarà ultimato vedrò di posizionarlo in modo che non possa nuocere, ma comunque sia, ne consiglio la lettura. Soprattutto a chi come me ha sogni che abbiano come morbosa dominante il lavoro editoriale e abbiano amato le Edizioni del Taglione e la regina Zabo; oppure a chi una volta è stato vittima di un manuale di autoaiuto e fortunatamente è ancora qui per raccontarlo.


Che altro dire, sarei proprio felice se potessi avere il libro degli ‘intraducibili’ (“They have a word for it”) che i due protagonisti ripetutamente citano…


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