giovedì, dicembre 26, 2002
nei pomeriggi di preoccupazione cerco di convertire l'ansia nella malinconia per gli struggenti sentimenti senza precisa collocazione temporale.
una mattina, al liceo, la professoressa d'italiano (a cui ho voluto bene nonostante la salivazione abbondante sulla sua dentatura
insolita trovasse sempre sfogo su delle innocenti copertine quando non sulle mani studentesche non tempestivamente ritirate) aveva deciso di sondare i nostri gusti personali in fatto di letteratura e sentimento.
Passava di banco in banco con l'indice puntato e chiedeva; l'intervistato tremante nello sforzo di intuire la risposta dall'esito meno drammatico blaterava qualcosa di assolutamente improbabile e allo stesso tempo assolutamente noto del programma del primo quadrimestre. Arrivò da me con la domanda: il racconto di un amore che ti è piaciuto di più.
Panico. Decido di dire il primo che mi è venuto in mente anche se so che non è la risposta giusta, che la risposta giusta sebbene pavida sarebbe: 'i promessi sposi'. Dico: "Le notti bianche". La professoressa sbuffa e dichiara: "NON è una storia d'amore!".
"Lo so", penso e va' che ne ho letti di libri. Ma che colpa ne ho se nell'agitazione del momento il mio inconscio ha saputo suggerire solo storie di sognatori truffati dalla vita e dall'amore? Nell'urgenza della risposta insindacabile (perchè il problema di dare una connotazione assoluta all'estetica dell'amore letterario era cosa che fuggivo), mi sfilavano in testa carovane di titoli che rimandavano a storie d'amore che non erano tali, dove l'amore era cercato, vaneggiato, atteso, dove per amore si faceva tutto ma dove
tutto immancabilmente crollava.
Non so se è per inveterato pessimismo (Pennac direbbe che è 'ottimismo ben informato'), verso il Lieto Fine nutro sempre dei sospetti. Così, va a finire che fra le storie d'amore più belle in vhs annovero "le onde del destino" di Lars von Trier, pellicola straordinaria e straziante: talmente straziante che è del genere di cui basta un'unica visione, nella vita. Oppure il meno tragico "In the mood for love" di Wong Kar Wai, comunque infelice.
In ogni caso, dev'essere stato questo trauma dialettico a rendermi in seguito così sensibile al genio dei Frammenti di Barthes; è un libro che si può leggere a vari livelli, che non propone soluzioni per qualcosa che non ne ha - non 'soluzioni', no - in cui Barthes dà la possibilità di immedesimarsi a chiunque.
Penso infatti che la vocazione analitica dell'opera non sia un difetto o una gelida architettura, perchè la materia che va a creare una vera e propria trama altro non è che l'esperienza del lettore: l'Oggetto Amato - quello che viene evocato ad ogni Figura, ad ogni spasmo dell'innamorato - può essere una specie di creatura multicefalo con un'anatomia da bestiario (collectors' edition), un collage di tutti gli amori e le situazioni amorose esperite, in altre parole la somma delle proprie conoscenze in fatto d'amore, e allo stesso tempo l'interpretazione di un unico attore, intensa, completa, assoluta. Forse perchè l'amore annulla ogni dimensione e quel che non si saggia nella vastità dell'esperienza, lo si conosce nella sua profondità. Eppure. La natura dell'amore rimane quanto di più ineffabile.
Scegliere questa come la più bella storia d'amore equivale a scegliere la propria: Tondelli in un suo scritto a proposito dei Frammenti suggeriva che un modo per leggere questo libro fosse annotare e correggere a matita l'entità Oggetto Amato con quella/e reale/i del vissuto personale.
Più che altro, non potendo discriminare in una tale babele di amori letterari - non per più di due secondi e mezzo - scegliere i Frammenti è l'unico modo per evitare un fastidioso perpetuarsi della questione e salvarsi da certo futuro da lettore "alfabetico" di dizionario (cfr. qualche post fa).
ore 17:50:03 "La casa del sonno" di Jonathan Coe.
ore 17:50:05 "Jules et Jim?"
ore 17:50:07 "L'insostenibile leggerezza dell'essere" - qualcuno me l'ha ricordato (!). Credo di avere qualche somiglianza con Tereza, e proprio nei difetti [sono onesta, dai, almeno lo ammetto]
E così via.
Il percorso inverso è l'astrazione. E astrazione per eccellenza è la massima espressione di ricercatezza giapponese: il teatro nô.
Le maschere del teatro nô sono in qualche modo Figure come quelle Barthesiane (dopotutto Barthes era un esperto di Giappone), alcune sintetizzano i tratti di una vasta tipologia di personaggi, altre sono utilizzate solo per ruoli specifici; tutte simboleggiano il puro essere, il nocciolo scarno del sentimento.
La maggior parte di queste maschere risale al periodo 1600-1800 ed è di legno, in un unico pezzo: ognuna non è quindi modellata sul viso dell'attore che al contrario vi si deve adattare e non la può indossare che il giorno della messa in scena. Come se non fosse lui a "entrare nel personaggio", bensì il contrario.
Tutto nel dramma nô tende a elidere la fisicità dell'attore, il suo essere persona invece che nudo simbolo di persona.
E tutto si svolge nella massima lentezza, perchè anche i gesti sono 'simboli di gesti', così come il paesaggio e l'ambientazione sono una sintesi altamente raffinata di colori e geometrie nel tendaggio e nelle vesti. Lo stesso accompagnamento sonoro, per quel che ne so, è spesso qualcosa che rimanda a un urlo, uno stridere, un gracchiare, una roca emulazione di musica.
A pensarci, sembra una rappresentazione così fredda e scarna, dalla bellezza tanto rarefatta e incomprensibile! pura sublimazione.
In realtà vuol essere tutt'altro che una mutilazione, tutt'altro che silenziosa, tutt'altro che aliena alle emozioni; la potenza dell'incanto sta nell'intensità del suo mistero.
In genere il dramma porta allo smascheramento, lo svolgersi della trama è la rivelazione dell'identità veritiera del personaggio, libera dalla possessione che la maschera rappresenta.
In Dolls, di Kitano, il teatro che viene citato non è il nô ma il bunraku, il teatro di marionette (non v'è situazione dove si abbia la sensazione di essere governati da un demone burattinaio come in quella amorosa) classico giapponese.
E' un film dai dialoghi scarni, con poca musica, pochi personaggi ma paesaggi e colori suggestivi violenti come le tre storie raccontate, come l'amore.
E' amore splendido, è amore sublime, distruttivo, esasperato, parossistico, assurdo, folle, divino e prosaico.
L'amore svela, l'amore nasconde? Qual è la sua "forma" e quale quella delle persone? Qual è il volto vero, quello deformato dalla possessione amorosa o quello che ne è privo?
A volte l'amore è un laccio. Emostatico.
posted by frammento at
15:52
0 commenti
venerdì, dicembre 20, 2002
certo, a me
taLpina giocare ad un
Aguzzate la vista sembra un po' una beffa... ma comunque ci metto dell'impegno:
In un'ora di grande traffico e di molteplici affluenze sul WEB, un pomeriggio di un martedì qualsiasi, stavo curiosando trai bloggers quando mi sono imbattuto in un blog che aveva un template azzurro, un po' confuso... ma ricco di link interessanti...
Il blogger in questione doveva essere piuttosto giovane, almeno stando a quanto scriveva. A un tratto, ho notato un commento a un suo post, un po' banale... commento a cui il proprietario del blog aveva a sua volta risposto in modo molto brusco e alterato, inveendo contro quel mal costume di lasciare in giro commenti gratuiti e inopportuni sui blog degli sconosciuti.
...
Due ore più tardi, mentre navigavo su un sito dedicato a un poco noto ma geniale cantautore italiano, ho rincontrato quello stesso blogger, o meglio una sua mail, che diceva al webmaster del sito in questione: "Dovresti mettere un bottone in più al menù principale". Gli fa vedere dove (vicino all'icona dell'uscita) e gli dice perchè
mah, ho mandato ieri a zop un esercizio che *in qualche modo* c'entra con questo, VEDREMO :)
posted by frammento at
02:45
0 commenti
venerdì, dicembre 13, 2002
Io sorrido e il mio sorriso vorrebbe essere di supporto, rassicurante, non un sorriso leggero, mi ammazzeresti, stai soffrendo e io cosa faccio, ti sorrido. E' solo un accenno e senza l'ausilio degli occhi, che rimangono immobili, è dagli occhi che si studia l'anatomia del sorriso e io indosso una maschera che ha la forma del rovescio che lascia libero il volto e copre lo sguardo, perchè è uno sguardo
livido.
A volte penso che dovrei infarcirmi meno di letteratura, non perchè la cultura faccia male ma perchè porta delle distorsioni preoccupanti quando male si sta.
Non è cosa che mi capiti spesso, e in genere almeno un qualche movente - troppo facile dire di tipo alcoolico - esiste. E invece questa volta no, magari è l'influenza che va quest'anno, non lo so, ma la scorsa settimana ho passato due notti definibili con inguaribile esprit de finesse soltanto come *emetiche*. Sarà stato tutto il parlare di "Tre uomini in barca" e di diffuse ipocondrie, una specie di contrappasso... Comunque sia, il mio stomaco ha detto NO. Mi pare abbia anche accennato un "io non ci sto" ed è probabile che questo abbia reso la gastrica ribellione inevitabile.
Niente di strano insomma, capita a tutti. Ciò di cui avrei riso se non fossi stata presa da quella serietà tutta infantile che sopraggiunge quando si sta male, è che mentre mi tenevo la mano sulla fronte (essì, da sola), vuoi perchè incoraggiata dal titolo sartriano, vuoi per confortarmi dandomi una statura in qualche modo letteraria (vuoi per prenderla con
filosofia) mi recitavo il finale de "le belles images" di Simone De Beauvoir. Quello in cui il corpo di Laurence rifiuta di ingerire, di digerire, rifiuta di mandar giù. In cui lei rifiuta, tout court. Di essere indifferente, di chiudere gli occhi.
Io non li voglio chiudere gli occhi.
Sono spesso tentata di pensare che della temporanea cecità, noi che la conosciamo solo per metafora, ci accorgiamo solo quando ricominciamo a vedere.
Eppure tutte le civiltà hanno creato il mito di indovini, saggi, poeti che mancando di una percezione visiva del mondo lo sapevano interpretare, perchè il difetto dei sensi potenziava per necessità una capacità alternativa di rappresentazione, elevava l'intuizione e inventava una realtà di superfici grezze e di astrazioni oracolari.
Non so se sia più spaventoso pensare che ci sia ancora qualcosa fuori dall'umidità lattea, ma quando c'è nebbia in certe vie di periferia, non si può che 'inoltrarsi'. Piano, si avanza, la nebbia si fa sempre più densa e lanuginosa e la città è solo una questione di immaginazione.
p.s. : Simone de Beauvoir l'avevo citata, dovevo capire il sintomo, è un periodo che quel suo libro continua a venirmi in mente :) e non mi era neanche piaciuto all'epoca della prima lettura!
posted by frammento at
05:30
0 commenti
venerdì, dicembre 06, 2002
Ieri sera ho riletto stralci di "Bartleby e compagnia" di Enrique Vila-Matas.
Oggi mi sento come il destinatario dell'epigramma che il narattore a un certo punto cita: "era così disperato che strappava tutti i capelli della sua parrucca"
(ah, nonostante ogni tanto il mio taglio indefinito mi trasformi in una sorta di playmobil, NON porto la parrucca)
posted by frammento at
03:10
0 commenti
giovedì, dicembre 05, 2002
e pensare che c'è qualcosa di meglio delle barzellette in interlingua...
click!
...
posted by frammento at
03:05
0 commenti
mercoledì, dicembre 04, 2002
Belli gli esercizi che sta facendo fare maestro
zop!
Gli originali di Queneau sono un capolavoro linguistico e nell'edizione italiana sono impreziositi in modo mirabile dalla traduzione di Umberto Eco (che ovviamente è più una interpretazione, dato che sarebbe impossibile mantenere il gusto dell'esercizio o anche un minimo di comprensibilità traducendo letteralmente).
Fra l'altro, io da un po' di tempo sono vittima dei dizionari (eh già) e dopo aver ceduto alla tentazione decisamente poco economica del dizionario delle lingue immaginarie, continuo a spender lacrime e sospiri davanti allo scaffale della Feltrinelli che esibisce l'enciclopedia 'Forse Queneau' delle scienze anomale - forse la colpa è proprio de Il pendolo di Foucault (e del Secondo Diario Minimo)...
Nei momenti di disperazione bibliomane penso: menomale che questa società consumistica prevede il Natale.
Lo so, è triste. No comment plìs, sono già abbastanza provata dall'autoflagellazione :)
L'uso dei dizionari è qualcosa di intimamente legato al concetto di web, in fin dei conti.
Leggere un qualsiasi dizionario seguendo l'ordine alfabetico vuol dire come minimo essere un pericoloso maniaco (non sto dicendo 'riproporsi di farlo' o 'tentare', sto dicendo mettere veramente in atto il proposito) o quanto meno aspirare al ruolo; ma questo tipo di dizionario in particolare non si riesce a leggere in modo progressivo: troppi collegamenti interessanti fra una voce e l'altra distolgono dal motivo per cui lo si era impugnato e si vaga da un capo all'altro dell'alfabeto per ore e ore e ore (straziante rendersi conto di quante cose ci sono - in cielo terra e filosofia, d'accordo, ma - anche solo in un dizionario,
da sapere).
Per esempio ieri stavo consultando la voce relativa al linguaggio dei carcerati fatto di pugni sui muri (utile, lasciate fare - e qui è ovviamente voluta l'omertà sul nome della pratica), poi ho continuato con il Volapük e l'Interlingua*... ma alla fine mi sono arenata alla voce 'supercazzola' (c'è!): mi sembrava indispensabile per sopravvivere alla riunione per il nome del prossimo portale aziendale.
*dato che
qualcuno mi manda dei link... poi rido davanti a delle barzellette muffe in modo imbarazzante, e solo perchè sembrano raccontate con occhi e denti sporgenti e grammelot :)
posted by frammento at
02:40
0 commenti