martedì, settembre 28, 2010

Mongolia/3 (qualcuno :) voleva sapere come sopravvivono i vegetariani in Mongolia)
La dieta Mongola è sostanzialmente fatta di carne e farina, diversamente combinate, con l'aggiunta di una selezione limitata di latticini.
Dato che saremmo andati a cena ogni sera da famiglie che si nutrivano principalmente di carne, per abitudine, certo, ma soprattutto per necessità, avevo il fondato timore di dover spesso rifiutare e magari offendere i nostri ospiti. Com'è noto, non sono una vegetariana pentita, che alla bisogna si adatta a mangiare carne o pesce: ne ho il ribrezzo, non amavo mangiarli nemmeno da bambina. Però non parto dal presupposto che gli altri capiscano e condividano. Non lo capiscono in Italia, dove i vegetariani hanno tutta la materia prima di cui necessitano, figurarsi in un paese dove si deve importare quasi tutto a parte latte e carne - anche se è un paese dove c'è un grande rispetto per gli animali, verso i quali non c'è un atteggiamento ipocrita.
Quando abbiamo concordato l'itinerario e le modalità di viaggio con i gestori dell'ostello io e s. abbiamo sottolineato il problema cibo; prima di partire, però, lì all'ostello avevamo conosciuto dei ragazzi israeliani di ritorno dal Gobi, che nonostante avessero specificato le stesse necessità, il più delle volte avevano dovuto cercare di mangiare il mangiabile e scartare il resto.
Quindi per il fatto di non aver mai saltato una cena e di non aver mai rifiutato niente o offeso nessuno, dobbiamo probabilmente ringraziare la nostra interprete, che si è sempre premurata di farci avere un'alternativa vegetariana: abbiamo visto un paio di volte l'espressione quasi angustiata delle signore che ci avrebbero preparato la cena ma lei si è sempre presa la briga di spiegare loro cosa fare, eventualmente aiutandole.
A parte i primi giorni (in cui avevamo ancora un po' di scorte della spesa fatta a UB, dove ormai si trova di tutto) e qualche rara eccezione, abbiamo mangiato quasi sempre carote e patate a pranzo e cena, accompagnate a riso, pasta o noodles oppure come ripieno di buuz (ravioli al vapore che di norma sono ripieni di montone) e khuushuur (ravioloni ripieni fritti), ricette che Byamba ha provato ad adattare per noi - "se dicessi a mia madre che ho messo nei buuz questo ripieno non ci crederebbe". Una dieta forse monotona, ma non abbiamo mai sofferto la fame, nè ci saremmo mai sognati di lamentarci. E i khuushuur non erano affatto male. Una sera ho anche aiutato Byamba a prepararli; mi guardava mentre mettevo dell'impegno nel chiudere dei ravioli palesemente deformi, dicendomi di quando in quando: so cute.
Posso consigliare un ristorante vegano a UB (strategicamente vicino all'ostello e non proprio preso d'assalto dalla gente del luogo, ma questo non gli toglie niente), dove abbiamo mangiato piatti mongoli in versione vegan davvero deliziosi.

Naturalmente ci è capitato di assaggiare anche altre specialità, anche se diplomaticamente possiamo dire che non si va in Mongolia per le squisitezze del palato. Una famiglia di allevatori di yak ce ne ha fatto assaggiare il latte (sapore molto intenso, quasi selvatico), abbiamo provato l'aaruul (formaggio dal sapore... "difficile", versione "truciolata" e versione spaccadenti - spacca denti occidentali: loro sono convinti che questo formaggio sia uno dei motivi per cui hanno dei buoni denti - io dico che hanno buoni denti anche perché non è nella loro tradizione di mangiare dolci propriamente detti). Per la strada dai nomadi abbiamo comprato airag (latte fermentato di giumenta, leggermente alcolico, che i mongoli bevono a litri) e nei guanz (osterie) abbiamo bevuto il famoso tè al latte salato (a me non dispiace, inteso più come una "zuppa" che come un tè). Provata per voi anche la vodka distillata dal latte di giumenta.

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lunedì, settembre 27, 2010

Mongolia/2
Molti dei grandi tour operator che offrono costosissimi viaggi in Mongolia, tengono UB come base e fanno per lo più spostamenti in aereo dalla capitale alle singole località di interesse. Mi sono fatta l'idea che sia perché lo stato (o l'inesistenza) delle strade mongole, non permetterebbe di offrire un viaggio abbastanza confortevole, magari di standard occidentale, o di calcolare i tempi di percorrenza, che dipendono molto dal tempo atmosferico (perché se piove, per esempio - questo soprattutto al centro-nord - ci sarà fango).
Il fatto è che sorvolare il deserto per atterrare in una qualche remota cittadina al centro o ai confini del nulla (tra l'uno e l'altro: un'ellissi), dal mio punto di vista, ha poco senso, dato che il Gobi è l'esempio più perfetto di luogo in cui il viaggiare e il semplice passare sono due esperienze completamente differenti.
Un proverbio mongolo dice che la gioia dell'uomo sta negli ampi spazi vuoti; ed è vero. È impossibile non lasciarsi ossessionare dall'orizzonte, un orizzonte ostile, anzi, uno degli orizzonti più ostili della Terra, che suscita una beata, segreta irrequietezza e impone di abbandonarvisi, come se la mancata percezione di confini inducesse a non arginare i vizi dell'umore, piuttosto per equivalenza li sciogliesse, semplificasse.
Non attraversare il Gobi, significa non conoscere la malìa del niente così smisurato e la sua superba desolazione; un'immensa distesa di niente, ma un niente incredibilmente vario: ampie superfici erbose spezzate da singolari formazioni rocciose, zone ghiaiose dove cresce il saxaul e nulla più, calanchi, canyon, fiammeggianti rupi di arenaria e, in zone molto ristrette, dune - dune impressionanti, spettacolari, che grazie al variare della luce e al vento rinnovano ogni momento il loro mistero.
Fosco Maraini, pur parlando di un altro Paese (il Tibet, i cui tre elementi caratteristici erano secondo lui il burro, le ossa e il silenzio), scriveva [..] V'è il silenzio giallo, ocra delle sassaie; quello cilestro-verde dei ghiacciai; quello delle valli dove roteano altissimi, contro il sole, i falchi. Ed è il silenzio che purifica tutto, secca il burro, polverizza le ossa e lascia infine nell'anima una dolcezza inesprimibile di sogno, come avessimo toccato qualche patria originaria perduta, dopo la primissima infanzia della storia.

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giovedì, settembre 09, 2010

Mongolia/1
Il rientro a Milano ha avuto un impatto meno traumatico del previsto, nell'immediato, ma a distanza di una settimana il senso di smarrimento dato dal viaggio non ha ancora ceduto il passo agli smarrimenti di routine.
È stato meno traumatico del previsto perché il vero choc culturale l'abbiamo avuto rientrando a Ulaan Baatar dalla provincia. Byamba era in fibrillazione: dopo tre settimane tra deserto, steppa e la puntatina nella taiga, a UB tutti le sembravano terribilmente alla moda. Ambakh la prendeva in giro inventandosi delle pose mentre aggirava o scioglieva grovigli di auto a colpi di clacson e frizione per riconsegnarci all'ostello.
Abbiamo percorso, in diciotto giorni, più o meno 4200 km - alla media dei 40 all'ora, dato che al momento su un paese grande come buona parte dell'Europa occidentale solo poco più di 1500 km sono strade battute.
Per l'itinerario (grosso modo) che abbiamo coperto la LonelyP indicava 2700 km: l'ho detto a Byamba, aggiungendo che probabilmente avevano unito i punti sulla cartina e misurato le linee rette. Lei (saggia giovane interprete) mi ha risposto: "A volte quando leggo quello che c'è scritto sulla LonelyP penso "Sì, questo è vero. Ma non poi così tanto".

Dopo tre settimane di latrine, il bagno di casa, che pure è un bugigattolo in puro stile cesso scolastico (da qualcuno definito "all'olandese", ma credo fosse una definizione di cortesia) mi è sembrato un alloggio lussuoso. D'altra parte già l'approccio con il bagno dell'ostello, che il giorno in cui siamo tornati era senza acqua calda, ma con acqua corrente, era stato divertente: per abitudine mi ero portata al lavandino la bottiglia d'acqua per lavarmi i denti.
Eppure non è difficile adattarsi. Per stancarmi delle scomodità avrei avuto bisogno di molto più tempo. In cui avrei potuto continuare a non stancarmi di tutto il resto: avevo letto parecchi libri sulla Mongolia, eppure tutto è riuscito a meravigliarmi.
Uno dei primi giorni, viaggiando verso il Gobi, avevamo chiesto a Byamba di fermarci per fotografare una montagna, che si ergeva improvvisa, imponente sulla steppa. Lei ci ha detto che era una montagna a loro molto cara, che uno dei loro massimi poeti le aveva dedicato una poesia che tutti i mongoli conoscono a memoria. "Come si chiama?"; lei ha risposto, quasi scusandosi: "Noi non possiamo pronunciare il nome delle montagne. Pensiamo porti sciagure". Allora m'è venuto in mente uno dei suggestivi racconti di Fritz Mühlenweg. Le ho detto, sorridendo: "Già, l'avevo letto in un libro, ma... era il racconto di un viaggio degli anni '20".
Il giorno dopo, parlando della successiva tappa del viaggio, le abbiamo chiesto a che ora saremmo potuti arrivare. Al che ci ha risposto, questa volta ridendo lei stessa, che non poteva dirci quanto ci avremmo messo: altrimenti sarebbe potuto capitare qualcosa sul percoso che ci avrebbe fatto ritardare.
Il tempo in Mongolia, è vissuto diversamente, ma è anche di una qualità differente. Io e s. eravamo più che disposti a lasciare che le cose andassero come dovevano andare, che i minuti per una volta se la vedessero tra di loro; e in ogni caso Byamba e Ambakh avevano tutta la nostra fiducia. Così nessun inconveniente o ritardo ci ha mai allarmati o irritati. E di inconvenienti riguardanti l'automezzo, ce ne sono capitati un po' di tutti i tipi.
Mühlenweg in un racconto scriveva: "Il mio apprendistato era stato straordinario. Era durato solo quattro settimane, ma quelle quattro settimane avevano trasformato un ottuso seguace dei minuti in un riflessivo allievo del tempo".

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posted by frammento at 07:44  4 commenti