giovedì, settembre 09, 2010

Mongolia/1
Il rientro a Milano ha avuto un impatto meno traumatico del previsto, nell'immediato, ma a distanza di una settimana il senso di smarrimento dato dal viaggio non ha ancora ceduto il passo agli smarrimenti di routine.
È stato meno traumatico del previsto perché il vero choc culturale l'abbiamo avuto rientrando a Ulaan Baatar dalla provincia. Byamba era in fibrillazione: dopo tre settimane tra deserto, steppa e la puntatina nella taiga, a UB tutti le sembravano terribilmente alla moda. Ambakh la prendeva in giro inventandosi delle pose mentre aggirava o scioglieva grovigli di auto a colpi di clacson e frizione per riconsegnarci all'ostello.
Abbiamo percorso, in diciotto giorni, più o meno 4200 km - alla media dei 40 all'ora, dato che al momento su un paese grande come buona parte dell'Europa occidentale solo poco più di 1500 km sono strade battute.
Per l'itinerario (grosso modo) che abbiamo coperto la LonelyP indicava 2700 km: l'ho detto a Byamba, aggiungendo che probabilmente avevano unito i punti sulla cartina e misurato le linee rette. Lei (saggia giovane interprete) mi ha risposto: "A volte quando leggo quello che c'è scritto sulla LonelyP penso "Sì, questo è vero. Ma non poi così tanto".

Dopo tre settimane di latrine, il bagno di casa, che pure è un bugigattolo in puro stile cesso scolastico (da qualcuno definito "all'olandese", ma credo fosse una definizione di cortesia) mi è sembrato un alloggio lussuoso. D'altra parte già l'approccio con il bagno dell'ostello, che il giorno in cui siamo tornati era senza acqua calda, ma con acqua corrente, era stato divertente: per abitudine mi ero portata al lavandino la bottiglia d'acqua per lavarmi i denti.
Eppure non è difficile adattarsi. Per stancarmi delle scomodità avrei avuto bisogno di molto più tempo. In cui avrei potuto continuare a non stancarmi di tutto il resto: avevo letto parecchi libri sulla Mongolia, eppure tutto è riuscito a meravigliarmi.
Uno dei primi giorni, viaggiando verso il Gobi, avevamo chiesto a Byamba di fermarci per fotografare una montagna, che si ergeva improvvisa, imponente sulla steppa. Lei ci ha detto che era una montagna a loro molto cara, che uno dei loro massimi poeti le aveva dedicato una poesia che tutti i mongoli conoscono a memoria. "Come si chiama?"; lei ha risposto, quasi scusandosi: "Noi non possiamo pronunciare il nome delle montagne. Pensiamo porti sciagure". Allora m'è venuto in mente uno dei suggestivi racconti di Fritz Mühlenweg. Le ho detto, sorridendo: "Già, l'avevo letto in un libro, ma... era il racconto di un viaggio degli anni '20".
Il giorno dopo, parlando della successiva tappa del viaggio, le abbiamo chiesto a che ora saremmo potuti arrivare. Al che ci ha risposto, questa volta ridendo lei stessa, che non poteva dirci quanto ci avremmo messo: altrimenti sarebbe potuto capitare qualcosa sul percoso che ci avrebbe fatto ritardare.
Il tempo in Mongolia, è vissuto diversamente, ma è anche di una qualità differente. Io e s. eravamo più che disposti a lasciare che le cose andassero come dovevano andare, che i minuti per una volta se la vedessero tra di loro; e in ogni caso Byamba e Ambakh avevano tutta la nostra fiducia. Così nessun inconveniente o ritardo ci ha mai allarmati o irritati. E di inconvenienti riguardanti l'automezzo, ce ne sono capitati un po' di tutti i tipi.
Mühlenweg in un racconto scriveva: "Il mio apprendistato era stato straordinario. Era durato solo quattro settimane, ma quelle quattro settimane avevano trasformato un ottuso seguace dei minuti in un riflessivo allievo del tempo".

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posted by frammento at 07:44  4 commenti