giovedì, gennaio 10, 2008

Ho appena scritto via Skype: "Non ce la facciamo, ma possiamo farcela. È l'atteggiamento, che è sbagliato. Non siamo pigri, siamo degli inconcludenti di belle speranze". Mi dovrei vergognare, vero?

L'anno è iniziato e io ero a spasso fra le colline del Senese. Sono passata di nuovo fra le terre su cui regna l'olmo che mi dà pace, ma ero così presa a evocare autobiografismi e a risparmiare benzina con una efficace gestione del cambio marcia prima/durante/dopo il tornante, che mi sono accorta solo al paese successivo che l'avevo mancato, ed era troppo tardi per tornare indietro.
Nei giorni in cui ho vagato per la provincia Senese, la Versilia e infine l'Emilia, anche le mie letture sono state erranti. Ho letto un libro che parlava dell'ultimo uomo in un mondo di vampiri, ho letto un libro corale su Bombay, ho letto un capolavoro "schivo" ispanoamericano. Sto purtroppo uscendo dal suo intrico di letteratura, amore, geometrie e altre sciocchezze, ma è quest'ultimo che leggo la notte, solo la notte.
A un certo punto di questo romanzo (2666, di Roberto Bolaño), un personaggio appende un trattato di geometria al filo dei panni, fa, come Duchamp, un ready-made malheureux. Questi, come regalo di nozze, mandò alla sorella Suzanne le istruzioni per appendere un trattato di geometria alla finestra, fissandolo a una corda affinché il vento potesse sfogliarlo, "scegliere i problemi, voltare le pagine e strapparle". Anni più tardi spiegò che aveva voluto prendersi gioco della "serietà di un libro carico di principi come quello" e che, esposto alla volubilità del tempo, "il trattato avesse finalmente capito quattro cose della vita".
È a questo episodio che ho pensato, quando sono rimasta frastornata per l'abissale improvvisa tristezza mossa da un testo del tutto trascurabile che mi è capitato oggi sottomano.

posted by frammento at 07:19  6 commenti