martedì, agosto 28, 2007

E' sera tardi. Dall'aereo in fase di atterraggio non vedo le luci della città, la immagino remota, remotissima. Ma no; è spenta, lo scopro quando saliamo sul taxi. Attraversiamo chilometri di tenebra avvolgente, in cui le case si avvicendano apparendo all'improvviso, illuminate dagli abbaglianti; è come una proiezione di diapositive, non manca neppure l'imitazione dello scatto fra una e l'altra a dare il ritmo: il tassista è turco e imposta le curve col freno a mano, ma almeno si ferma ai semafori rossi.

Lubecca è in buona parte ricostruita, eppure non sembra una scenografia di compensato.
E' stata rasa al suolo la domenica delle Palme del '42. Dopo, finita la guerra, c'è stato molto da lavorare, ma tutto è stato fatto.
Le dona, questa oscurità corposa, non ostile. Le persone parlano e ridono sedute ai tavoli di qualche locale illuminato fiocamente, ma non sono chiassose, e la musica è discreta. Lubecca di sera è un susseguirsi di scene in cui la luce entra clandestina e tiepida, è un invito al sussurro.
Di giorno invece, il giorno dopo, è un invito alla bestemmia. Pioggia a dirotto e vento del Baltico, ovvero pioggia orizzontale: dopo due ore, anche con il k-way addosso, siamo completamente fradici e rinunciamo a portare gli occhiali.
In fin dei conti però, anche la pioggia e il vento le donano (forse è il sole che le fa torto). Sarà per via degli austeri mattoni rossi e neri o dei campanili altissimi e aguzzi di cui non si scorge la cima, fuggita al di là delle nuvole basse, o per via dei cani che si infilano dentro il portone delle chiese sconsacrate a ripararsi.

posted by frammento at 02:41  0 commenti