sabato, gennaio 28, 2006

Ci hanno restituito le stagioni, dice.
Sotto casa riesco a intendere finalmente le generose offerte che il muratore sudamericano mi dedica ogni mattina dalle impalcature. Esito a infilare le cuffiette, ammansita dal silenzio candido. Domani al più tardi sarà cic-ciac e fango, ma ora è un deserto di sale, è una città tutta forma, forma soffice. A. mi ha detto che vorrebbe che lasciassi un mio segno prima di andare via, penso mentre scivolo durante un dogfight con un altro pedone e il mio ginocchio scava un'impronta rotonda sulla glassa del marciapiede. In autobus ascolto the collected breaths of mutes / and all our silent exhalations / where we should've put words, / or words we had no one to tell, / emptied from clouds / like cleaning horns' spit valves, sul ponte contemplo la ferrovia celata con una spazzata sotto il tappeto di chiarore, il teschio dell'alta tensione con un incisivo e un bulbo oculare freschi di nevicata.
La pioggia, dice la canzone, è confession weather, la neve è un corteo di segreti.

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giovedì, gennaio 26, 2006

Mi hanno portato in dono dal Giappone una bambola Kokeshi. Nella scatola, vari foglietti ammoniscono di toccarla solo con le mani asciutte altrimenti il colore sbiadirà, scomparirà, sarà inghiottito dalla materia.
La bambola è un minuscolo fardello stretto fra le linee sul palmo, una clessidra a dispersione di colore trattenuta da spaghi da chiromante, memoria corruttibile da intuizioni non ancora inaridite.

Nei vecchi appartamenti esistono stanze di cui ci si dimentica. Trascurate per mesi, deperiscono in totale abbandono fra le vecchie mura, e accade che si richiudano in se stesse, si coprano di mattoni e, perdute ormai per sempre alla nostra memoria, smarriscano a poco a poco la propria esistenza. Le porte che vi conducono da un qualche pianerottolo delle scale di servizio, possono sfuggire per tanto tempo ali occhi degli inquilini da penetrare infine, entrare nella parete, che ne cancella ogni traccia nel disegno fantastico delle crepe e delle fessure.

Bruno Schulz, Le botteghe color cannella. All'epoca delle mie rivoluzioni, mi do ai classici.

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mercoledì, gennaio 25, 2006

Inconsueto. Ma di inizi e di troncamenti inconsueti ne abbiamo avuti, sono anni, possiamo anche permetterci di comunicare a rimbalzi. Ci rimbalziamo le gratitudini, e rimbalziamo di mezzo in mezzo, sms-mail-blog-telefononicht, e poi rimbalziamo noi come canguri con i guantoni da boxe.
L'affetto di sempre non rimbalza, estorto al silenzio ed esposto, è così che non si consuma. Non gli concedi la polvere e sarà lustro e celebre, come le lettere da rileggere per il proprio bene la cui carta prende appena colore sui bordi, simili a prodigiose mappe del tesoro, la X su un ventricolo ipertrofico.
Ho capito una cosa di voi, miei rapporti sbilanciati. Ciò che fa sì che non scegliate l'abbandono, è l'intollerabile gioia, l'amorevole rigetto per la mia rassegnazione a gettarvi addosso i miei assoluti sballati.

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lunedì, gennaio 16, 2006

Quand'era giovane, mia madre aveva terrore del vento. Soffriva quando si alzava il vento e soffriva nell'attesa che arrivasse, ogni impercettibile mutamento delle condizioni atmosferiche un presagio: l'umidità, la vibrazione dell'aria tiepida.
In un mio ricordo, è per terra in un angolo della stanza e si tiene le ginocchia, il telegiornale che minaccia una tromba d'aria. Eppure mi ha detto che forse più della raffica e della tempesta la disturbava il soffio costante ma ripetuto, tenace che modificava le cose con leggerezza, al punto che non riusciva a guardare una tenda gonfiarsi, sgonfiarsi davanti a una finestra aperta, senza che le vertigini le imponessero di mettersi a sedere.
Quand'ero bambina, di tanto in tanto la sua sensibilità mi era invisa - lei non si tuffava dagli scogli, non sapeva nuotare, soffriva di vertigini, non mi lanciava ad agguantare il giro gratis al calcinculo dell'Idroscalo (o peggio, alle ex-Varesine, dove ci si faceva centrifugare dalla mostruosa ballerina meccanica su/da musica degli Europe) - ma il più delle volte faceva solo sì che assumessi come un'intima irrinunciabile responsabilità la sua protezione. Era una responsabilità da cui non mi sapevo difendere, e che la infastidiva, potrei scommetterci.

E pensare che una delle immagini recenti che perseguita me, che mi perseguita con dolcezza, è una tenda d'un colore acceso, unico colore che il vento rendeva cangiante e mobile quando mi svegliavo a notte, ed era uno dei rari momenti in cui non mi ponevo domande umilianti.

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giovedì, gennaio 12, 2006

Avevo una gran voglia di storie, non so perché. Il giorno che mi sono sentita male ho rivendicato il diritto di farmele leggere e, dopo aver cincischiato con un antiemetico, mi sono infilata sotto il piumone e ho indicato dove prelevare il libro prescelto. E' così che ho scoperto che era scomparso - ed è così che ho finito per richiedere Brookmyre, lì dov'è irresistibilmente pulp, comicamente nero.
Erano però tutte pagine già lette. Mi trovavo nella sgradevole situazione di essere circondata da libri, anche intonsi, e di non trovarne uno da desiderare.
Succede, quando sono appena stata abbandonata da un libro. C'è un punto fermo, il punto finale, che di alcune storie è mero limite grafico. Eppure è disorientante osservare un comune tondino nero, altrove un respiro, ingurgitare famelico promesse smisurate.
La mia discrezione viene meno quando in metrò colgo qualcuno davanti all'ultima pagina di un libro: lo osservo, sto con il mento appoggiato all'incavo del braccio aggrappato al sostegno. Quando sono io a finirne uno, alzo la testa con lentezza perché mi sento osservata, tremendamente esposta, come se piangessi in pubblico o come se avessi fatto una di quelle cose che faccio regolarmente, come inciampare nei miei piedi mentre ho sul viso un'espressione stupidamente seria.
Terminati i racconti di Hannah Tinti in Animal Crackers, ne avrei voluti altrettanti ancora. Arrivata al punto, ho chiuso il libro di botto. Nei giorni seguenti non riuscivo a scrollarmi di dosso alcune immagini modellate a paragrafi spigolosi e passione crudelmente slavata, e non trovavo un nuovo libro da desiderare. So per esperienza che quando sono confusa dai libri come da una piatta moltitudine (un territorio senza eredi/senza muri?), ho bisogno semplicemente di storie. E, ecco, tendo a soddisfare questo bisogno con le storie di Paul Auster. Non lo leggo mai in altre occasioni, eppure non è un ripiego. Intendo dire - questo naturalmente perché ho cofanetti di tre serie di sex&thecity a cui mi affido per le citazioni antropologiche - che non è l'amico per il sesso con il quale vige un accordo tacito di mancanza di implicazioni. Al contrario.
Sento la necessità specifica di Auster, perché la sua è una scrittura di storie, di chi fa del raccontare una questione di sopravvivenza, di chi dalle storie non rimane illeso, né immutato.

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giovedì, gennaio 05, 2006

Mi scrive una mail mi spiace ma ti tocca, ma sa che a me non dispiace perché, pur con la necessaria discontinuità di noia e di connessione, ha letto quasi tre dei miei anni, forse poco meno. Non può non intuire che la prima delle mie manie è dire facciamo un gioco (potreste pensare a un libro di letteratura performativa di Emmanuel Carrère, ma non voleva essere una citazione). E' un'opportunità che, non ci credereste, ha un potere di seduzione sorprendentemente misero.
A pensarci meglio, non posso considerarla la prima delle mie manie. La prima è sospirare quando lavo i piatti ci vuole proprio un caffé: prepararlo è un compito che ho acquisito per maestria e dipendenza dalla caffeina, mi informano sistemandosi il cuscino del divano. Mio padre invece (che allucina l'odore di freschino), quando lavo i piatti s'interessa hai messo la varechina, vero?. Io rispondo di no quando è già fuori dalla cucina ma fa lo stesso, tanto è evidente quanto sia una domanda puramente maniacale.
Magari, non so, la mia prima mania è un'altra ancora. Non è raro, quando finalmente prendo sonno la notte, che mi trascini da un'angoscia all'altra, sicché negli anni ho cercato almeno di prevenire gli incubi derivati dalla distribuzione casuale degli arti fra le lenzuola. Bandita la posizione prona con la faccia sprofondata nel cuscino che mi affliggeva con soffocamenti a episodi, onirici e non solo, ora quando sento il torpore che prelude al riposo mi metto supina, mummia nel mio sarcofago, con le braccia incrociate sul petto o sull'addome, a tenermi insieme. Se non sono sola mi concedo di scivolare sul fianco per aderire all'altro corpo e incrociare le braccia sul petto di quello.
Forse prima ancora c'è la mania di collezionare protestando che non sono una collezionista, pur ostentandone le ossessioni. Le mie svariate, embrionali, collezioni non superano mai, per precisa visione estetica, i quindici pezzi. Non supererebbero mai i dieci, ad essere sincera, ma ho dovuto ripensare la regola per via dei pupazzi da dita, dato che sono ancora munita di tutte le falangi nonostante quella che è la prima vera e più vergognosa mania, cioè mangiarmi le unghie fino a sanguinare. Me le mangio mentre leggo, mentre mastico chewing-gum (anche cinnamon). Rosico fra una portata e l'altra e fra una boccata e l'altra di fumo; quando ci sono tracce dello zucchero a velo del pandoro sulla pellicola ungueale come quando ci spennello lo smalto a fare da deterrente. Lo so, è ributtante. E so fare di peggio. Linkare blogger che non giocheranno, ad esempio:

mirumir,
stewie,
alfo,
allerta,
macubu

p.s. Il regolamento era: scrivi cinque strane tue abitudini e postale assieme al regolamento; invita altri cinque a fare lo stesso e linkali.

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E dopo il post sull'incoscienza, il post sulla perdita di coscienza, pardon, di conoscenza. La sera del primo, al ristorante cinese. Menomale che c'è chi ti sta vicino anche mentre rantoli e hai le pupille dalla parte sbagliata dell'alveo oculare, che distoglie dal ritorno a sè con confidenze delicate e con un'autrice da scoprire. Oggi vado alla Fnac mica per niente. Più la conosco più mi convinco che la narratrice da scoprire sia lei. Perciò sarò discreta.


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