lunedì, gennaio 16, 2006

Quand'era giovane, mia madre aveva terrore del vento. Soffriva quando si alzava il vento e soffriva nell'attesa che arrivasse, ogni impercettibile mutamento delle condizioni atmosferiche un presagio: l'umidità, la vibrazione dell'aria tiepida.
In un mio ricordo, è per terra in un angolo della stanza e si tiene le ginocchia, il telegiornale che minaccia una tromba d'aria. Eppure mi ha detto che forse più della raffica e della tempesta la disturbava il soffio costante ma ripetuto, tenace che modificava le cose con leggerezza, al punto che non riusciva a guardare una tenda gonfiarsi, sgonfiarsi davanti a una finestra aperta, senza che le vertigini le imponessero di mettersi a sedere.
Quand'ero bambina, di tanto in tanto la sua sensibilità mi era invisa - lei non si tuffava dagli scogli, non sapeva nuotare, soffriva di vertigini, non mi lanciava ad agguantare il giro gratis al calcinculo dell'Idroscalo (o peggio, alle ex-Varesine, dove ci si faceva centrifugare dalla mostruosa ballerina meccanica su/da musica degli Europe) - ma il più delle volte faceva solo sì che assumessi come un'intima irrinunciabile responsabilità la sua protezione. Era una responsabilità da cui non mi sapevo difendere, e che la infastidiva, potrei scommetterci.

E pensare che una delle immagini recenti che perseguita me, che mi perseguita con dolcezza, è una tenda d'un colore acceso, unico colore che il vento rendeva cangiante e mobile quando mi svegliavo a notte, ed era uno dei rari momenti in cui non mi ponevo domande umilianti.

posted by frammento at 15:55  0 commenti