martedì, marzo 01, 2005

L'altra notte ho sognato che ero in pigiama (questo il particolare più scioccante*) al cospetto di un robot, nel quale in realtà riconoscevo una persona ben precisa, e questi mi impediva di respirare soffiandomi addosso. Certo, io cercavo di opporre qualche resistenza, ma era più che altro una resa annunciata - dicevo "smettila!" o "ma perché..?" e fendevo il geyser riparandomi con le braccia, ma con poca energia, disorientata e riluttante. Poi mi sono svegliata e mi sono resa conto di aver sognato quasi tutto. Di respirare effettivamente non mi riusciva per via di un'espirazione che mi sciroccava i lineamenti; ma d'altra parte già da qualche ora avevo disteso buona parte del mio peso su una gabbia toracica che non poteva che ribellarsi: ad ogni buon conto mi sono sentita fortemente in colpa per l'equivoco - scambiare te per l'ego meccanico di un alter uomo.

Sono sempre inerme al risveglio, dopo ogni battito di ciglia. Continuo ad essere impreparata alla vulnerabilità dell'istante qualsiasi. Così quando abbiamo visto un film che a me ha detto molto, ma ha angosciato te, mi sono sentita sofferente coinvolta.

L'altra sera ho aperto dopo attesa trimestrale l'esito positivo di una certificazione linguistica in cui non speravo neanche più. Più tardi mio padre, vista la pluralità di eventi fortunati dell'ultimo periodo, mi ha agguantato le spalle e mi ha dato un bacio lieve sulla nuca: "Sembra che le cose ora ti vadano bene, finalmente. Sei felice?".
"S-sì". Poi ho chiuso la porta della camera per allagarla di umor nero e trangugiare canzoni nichiliste.
Nella lingua del dolce s-sì... vorrei che fosse perdonabile non essere felice. Ma poi me le cerco. Ho sempre desiderato che la felicità non fosse qualcosa da costruire, ma semplicemente fosse, se (proprio) poteva. Non è questione di indolenza caratteriale, è questione di giustizia, di diritto di bisogno.


* fa il paio col dettaglio del calzino de "Il Naufragio della Speranza"?

posted by frammento at 12:56  0 commenti