martedì, dicembre 28, 2004

L'insegnante di giapponese è tornata a casa per le vacanze e ha distribuito nengajo da spedirle a Osaka. I nengajo in Giappone vengono consegnati tutti il primo giorno dell'anno, arriva il postino e ti consegna mazzette di auguri in cartoline di piccolo taglio, oltretutto segnate perché c'è la lotteria. In Italia non si produrrebbe, via, un costume basato sull'efficienza. E sta bene, io le nostre proverbiali inefficienze le sopporto: anzi ho sviluppato quella sorta di fatalismo intenerito che le giustifica - dopotutto noi sfoggiamo Leonardo, Michelangelo e il Rinascimento, mica l'orologio a cucù. Così non mi ha irritata, mi ha dato solo una lieve noia e mi ha strappato un sorriso (in cui la curva degli occhi anelava a congiungersi col suolo), l'arrivo degli auguri firmati "zia e nonna" oggi, quando nonna è morta la vigilia di Natale.

Cara la mia Gemma. Non so se la mia sia intransigenza non necessaria o egoista, ma non sono io la persona da mandare al pulpito. Forse perché mi vede come la più adatta a fare una lettura, mia zia vorrebbe proprio che lo facessi, chissà perché. Davvero non potrei. E' Santo Stefano - non si muore nei dì di festa - e per le esequie ci siamo dovuti rassegnare a quel che passava il cimitero. Il prete prega il Padre Nostro volgendogli dita ingessate. L'organista intona stornelli che dicono che nasciamo pe' soffri', e il fatto di doverlo ascoltare rende tutto più convicente. Una signora imbucata, ingolosita da una funzione non prevista (giornate di bagordi per lei), occupa il posto del dolore altrui.
Il nipote prodigo è arrivato appena in tempo alla camera ardente, e poi il coperchio si è richiuso sulla seta e il cuscino e l'abito color smeraldo - Gemma è andata al suo funerale col vestito da sposa di sua figlia. Nessun ralenti sul procedimento, è un assemblaggio. Il trapano assicura ogni vite, al ritmo del rito privo di ritualità, brutale. Dei professionisti sbrigano la procedura in modo molto rumoroso, forse per illuderci che scompaia ogni altro rumore e suggerirci una sacralità di consolazione. Finiscono il lavoro, e finisce.
Il terzo giorno, l'ho guardata senza piangere. Si sono raccontati gli aneddoti di un vissuto lungo e pieno pure nella mancanza di lucidità degli ultimi anni. Li abbiamo sussurrati sopra il suo volto, incerti se rammentarli a noi o a lei.
Mi ha atterrito quel rosario fra le mani, appoggiato in grembo. Su nel letto d'ospedale allucinavo il movimento del diaframma, ogni punto di riferimento perso sul bianco del lenzuolo, ma il rosario è perfettamente immobile, la posa di sghimbescio non si è scomposta.
La mattina di Natale io e i miei genitori eravamo andati a prendere dei dolci per i bambini, li avremmo portati e saremmo rimasti con loro e la famiglia allargata di altre famiglie. E invece siamo passati, abbiamo lasciato i dolci e preso su le valigie e siamo scappati da Viareggio. Mi ha commosso l'umano spaesamento dei miei genitori, mio padre continuava a prendere strade sbagliate anche se le conosce palmo a palmo, siamo finiti a Pietrasanta e a Migliarino (ci davamo alla macchia) e persino a Lucca. Avevo bisogno di rivedere mio fratello. Io piangevo dentro i tovaglioli rossi che lo zio mi aveva recuperato con una irruzione alla festa di natale in ospedale, ma non asciugavano.
Piansi anche gli ultimi attimi al suo fianco e lì mi assalirono gli zii per portarmi via, prendendomi per le spalle e scuotendomi con fin troppa energia, perché non dovevo piangere e accettare. Poi arrivò la suora della magnifica "è la tua prima morte?" e nonostante la mia cortese ostilità mi baciò e disse che "si nasce per morire e poi rinascere alla vita con Dio". Al che risposi: "NON E' RASSICURANTE". Non avevo il proposito di non accettare la morte, e non avevo nemmeno nessuna intenzione di fare la mia filosofia spicciola su quanto aspetta ciascuno. Piangevo mia nonna.
Smisi quando Danilo mi abbracciò, sentivo nella morsa la sua pancia tonda sussultare per i singhiozzi e non si trattenne più e all'orecchio mi biascicò "non ce la faccio". Poi arrivarono i professionisti che dovevano preparare e vestire il corpicino e avevano fretta e poi c'erano gli altri professionisti che dovevano constatare il decesso e non volevano responsabilità, e si litigò su legge e consuetudine, si fecero dei maldestri inutili elettrocardiogrammi e noi eravamo lì nei cantoni della anticamera ognuno appoggiato al suo pezzo di muro e il nostro sguardo non aveva direzione.


Quand'ero più giovane era difficile che chiedessi scusa. A dire il vero, a pensarci bene, in famiglia lo è ancora, tanto quanto è difficile che attesti il mio affetto verbalmente.
Eppure alla nonna ho chiesto scusa innumerevoli volte, quando ancora potevo avere qualcosa di cui dovermi scusare.
Lei mi liquidava imbarazzata "non importa, io dimentico". Ed era vero: aveva l'Alzheimer.
Nonna. Mi facevi incazzare e commuovere, mi proteggevi e mi smentivi.

posted by frammento at 13:35  0 commenti