giovedì, dicembre 02, 2004

2 dicembre 2004. Ho ventisette anni. Non da oggi, già da qualche mese.
E' il 2 dicembre 2004. Sono a corto di risorse e non ho ancora imparato a darmi delle opportunità.
Mastico e sputo, sputo via il miele e la cera. Se sgrano gli occhi e il solito rosario di turbamenti, che conta esili prospettive e accoglie minime imposizioni, so fare in modo che il supporto altrui mi sia indispensabile, così che respingerlo sia ancora più munifico. Magnifico. Stronzo.
O inappagante e ingenuo e dispersivo - tutte quelle energie che non conosco, che non si mantengono costanti, che non oso: eppure ho avuto veramente forza almeno una volta, forse l'ho avuta tutta in una volta.
Ho sempre pensato che una certa mia tristezza potesse essere uno strumento cognitivo. E che essendo così pervasiva e devastatrice, facesse da collante. Fa da collant, piuttosto - in testa. Ho un sorriso volatile che è come una barricata di seta che nessuno vuol macchiare di sospetto. Quasi mi compiace, fare scorta di possibilità di rivelazione. E' una speciale ottusità, una qualità di stima.

Sto iniziando e abbandonando pile di libri. Non riesco a trovare quello che voglio leggere, quello di cui ho bisogno. Ormai esco dalla librerie più disturbata e febbricitante di quando vi entro in cerca di rimedi. Magari mi incammino sulla cattiva strada di un Van der Jagt, apprezzato con qualche esitazione ai tempi della "Storia della mia calvizie" e mi faccio investire di delusioni. Non amo i romanzi in cui ogni paragrafo ha la spocchia di un'introduzione, mi innervosiscono le trame costruite per far stramazzare il lettore con un astuto fetido beverone aforismatico davanti a un deserto d'inventiva. Avrà un blog, 'sto Van der Jagt?
La seconda possibilità gliel'avrei data comunque perché è pubblicato da uno dei miei editori-feticcio, la Instar Libri. Però, che dire? Intanto un altro mio editore-feticcio, Meridiano Zero, ha ceduto i diritti per gli ultimi due volumi del Red Riding Quartet. Ma dio, come ha potuto? David Peace! Li ho letti in lingua originale perché non potevo aspettarli e poi li ho aspettati per rileggerli. Quando li ho visti con un'altra livrea qualche settimana fa mi hanno ceduto le gambe, così, letterale: il mio feticismo non è per niente letterario.
Ho ricominciato a vaneggiare dello Yorkshire dei miei sogni e dei miei incubi e ho preso il libro dallo scaffale, il primo: questa volta li leggo in ordine di apparizione (comparizione?).

Dicevo
Quand'ero bambina, guardavo spesso un telefilm. Uno dei personaggi era uno svitato certificato. In una puntata che io avevo vissuto come una drammatica infatuazione, si ricapitolavano le fasi del suo squilibrio: la prima tappa o il tracollo era stata una giornata intera passata a fissare - fissare - una lampadina accesa. Quando a sera accesi la luce, guardai la lampadina e desiderai follemente la follia. Avevo un lampadario fatto di una intelaiatura rivestita da un tessuto leggero e retta da un cavo a molla, con dei piccoli pendagli. Mi misi seduta a fissare il bulbo là in alto, ma lacrimandomi gli occhi non riuscivo a resistere. Allora mi arrampicai sulla scrivania (quel meschino d'un Icaro non ha mai insegnato niente a nessuno) e saltai per dare la spinta al lampadario, ché magari privato della sua staticità sarei riuscita a fissare. Dalla brama di follia fui distratta dalle proiezioni rotanti dei pendagli sulle pareti, mi ipnotizzò il carillon di ombre. Mi accoccolai sul pavimento per beffare il moto perpetuo.

posted by frammento at 08:40  0 commenti