giovedì, aprile 22, 2004

Uno spiraglio di verde che è come un incavo profondo fra due braccia nivee, distese: è una foto scattata dall'interno, non una foto significativa, solo la prima che associo al Museo Serralves di Porto, a cui si accodano tutte le successive richiamate da quella, ritornello e strofe.
Nel periodo in cui l'ho visitato c'era una retrospettiva su Nan Goldin, una che considera la fotografia un modo di toccare qualcuno - una forma di tenerezza e che raccoglie anime e corpi fragili in un diario di affetti.
Si scostava un tendone scuro e ci si accomodava a terra fra profili silenziosi nel salone dove scorrevano le diapositive, le ballate di una vita e una ballata di Bjork.
Poi si ritornava alle pareti bianche, la musica dietro il tendone continuava, le foto apparivano in un ordine diverso, una vita ripartiva, imprevista, carburata di emozione.
Dopo un paio di spigoli appariva il rettangolo di giardino in fondo al corridoio stretto, il taglio nella pelle diafana del museo offerto al visitatore in modo che si lasciasse toccare dal mondo esterno senza aggressione, come per una forma di tenerezza.

Da bambini eravamo emuli di Indiana Jones, avanzavamo millimetricamente aggrappati alla ringhiera sopra la fontana dei giardini a Porta Venezia, avevamo giacche tappezzate di taschine che ci facevano più pescatori che archeologi, vantavamo la padronanza di materie sconosciute indispensabili e un'infinità di nomi. Un'infinità. Accompagnati da jingle feroci.
(Più avanti negli anni, un amico mi ha elencato le espressioni con cui mi riferivo a lui e poi ha aggiunto che potevo usare qualsiasi altro sinonimo volessi e solo io potevo e mi sembrò che mi offrisse un enorme immeritato potere.)
So di ricamare sui miei sintomi di ottusità e confezionare pensieri sterili. Ma dev'esserci stato un giorno (a me viene in mente un gazebo d'estate, il sole che sottolinea brutalmente l'abisso di un volto ossuto; ma è un'immagine che non rimanda a niente, solo a sè stessa), in cui i nostri nomi sono diventati cose smesse e siamo diventati dipendenti da qualcosa, da quella paura per cui per molto tempo non ho trovato sinonimi e di cui tu adesso non riesci a fare a meno. Perchè poi "avere il controllo" è diventato quell'utopia e quella necessità che pure si disprezza.


posted by frammento at 02:34  0 commenti