martedì, febbraio 03, 2004

SNAFU?
Ho un mal di testa feroce. Ero indecisa su quale riposo indossare: punzecchiato da veglie che a fatica strizzassero ancora pensieri vizzi oppure decorato da patacche appuntate per la resistenza alla forma narrativa di angoscia e ossessione.
Anche in stagione di saldi, non sono riuscita a trovarmi un sonno decente.

Il fatto è che stavo aspettando un evento ben preciso che avrebbe potuto cambiare la mia vita. Mi sentivo come ne "La venticinquesima ora". Poteva essere la castrazione o finalmente il rinnovo di tutte le possibilità. Il calendario era ancora fermo su gennaio, e non solo per la bellezza di quell'ukiyo-e (balle, il calendario con gli ukiyo-e di Hokusai è effettivamente appeso, ma questa frase era giusto per far vedere che sto al passo con gli eventi cittadini)

Monty chiude a chiave la porta del gabinetto e si siede sul coperchio del water. Qualcuno ha scritto fottiti col pennarello argentato sul rotolo di carta igienica. Certo, pensa, e fottiti anche tu. Si fottano tutti. Si fotta questa città e tutti i suoi abitanti.

Ecco così. Qualcuno ha scritto fottiti sul mio monitor e io potrei essere pronta all'invettiva totale, celebrativa, di questa città che spreca luoghi comuni, uno scambio di sguardi dietro occhiali a specchio, lo stereotipo sempre chiuso in un riflesso.
Psichedelie che a volte mi danno il voltastomaco. Anche se è vero che nei luoghi comuni c'è un fondo di verità, e alla fine io stessa li cullo, li contemplo, li esercito, sono un mio diritto. Vivo qui. Mi faccio parlare del volgere delle stagioni dal variare qualitativo della spazzatura che si trova in curva a quella via isolata e squallida elevata a discarica per evidente vocazione, scorciatoia incontestabile ma piuttosto ansiogena. Quando torno da certe tranquillità domestiche diserto la superstrada virando verso il sano terrore dei mastodonti semiabbandonati ai confini metropolitani, magari piove e mi lascio sopraffare a intervalli di detersione, il tergicristallo come un otturatore che parla con voce di ruggine. Dalla stanza, quando è tardi, il rimbombo di un paio di tacchi in strada è un intercalare di istanti che lascia sull'asfalto l'impressione di una fuga, sottrae alla ferrovia la prerogativa della fantasticheria, il treno che fagocita traversine nel buio diventa solo l'evocazione spettrale della periferia, del margine, perchè qui non ci sono fermate.

Non era nelle mie intenzioni scrivere questo (ukiyo-e, eh?). L'ho scritto solo per arrivare al conclusivo E fottiti anche tu, (io, n.d.b.), vai al diavolo.
Presto saluterò la persona che in questo momento mi conosce meglio, quella con cui ho parlato, sì, parlato davvero, e so benissimo che la nostra separazione diventerà inevitabilmente definitiva, lo so perchè è così che siamo. Non riusciremo a sentirci speciali.
Questo pensavo. E' la persona che forse meglio mi conosce e non è mai stata a casa mia, non ha mai visto quella cazzo di stanza, i miei libri, gli anni stratificati sulla bacheca, le stampe. Non ha visto come sta il suo regalo (me ne ha fatti tanti ma uno è fra i più belli mai ricevuti) fra le mie cose. E non riesco a sentirmi normale.


posted by frammento at 02:24  0 commenti