giovedì, febbraio 26, 2004

Qualche tempo fa ho letto quasi contemporaneamente tre libri in tutto dissimili meno che in un particolare. Il protagonista si ritrovava a raccogliere la vita di un assente, scomparso o defunto, riordinando le sue cose sparse - registrazioni sonore, taccuini, l'itinerario della fuga - documenti di una lucida autodistruzione o di una astrusa assimilazione al mondo: e nel raccoglierla la comprendeva, la prendeva per sè, vi si confondeva, si smarriva.
Per essere corretta dovrei dire che nessuno dei tre, trovava la sua conclusione nello smarrimento. Nelle ultime pagine nuove coordinate intervenivano a restituire un qualche equilibrio: un amaro senso di giustizia; una follia quieta che scivolava tra le righe, tra le crepe; la risoluzione dell'inseguimento nella sua doppia faccia, la fuga.

Nelle frasi da tradurre ieri ne avevo una con il significato: ti prego, non dimenticarti di me. A volerla tradurre in modo più letterale e tuttavia, in questo caso, più libero* era però: ti prego, non dimenticarti della cosa che sono io - di quanto riguarda me.

Allora ecco un quarto libro.
Parla di una morte accidentale sospettata di essere volontaria, un testimone canino e il lutto senza rassegnazione di un linguista: queste sono le premesse che portano la decisione di insegnare al cane a parlare, la trasformazione della persona persa e dell'amore vissuto.
Quando ho acquistato il libro ho cominciato a leggerlo e avrei voluto essere quel cane, che qualcuno decidesse di insegnarmi a parlare: un'impresa altrettanto disperata - tenendo conto che l'impresa consisterebbe anche nel farmi dire qualcosa di rilevante.
Ma alla fine quello che m'ha lasciata boccheggiante, ad affamarmi d'ossigeno, è stato l'epilogo senza equivoci, in cui il disturbo ben percepito procurato dal personaggio femminile, la moglie defunta (come già detto, non c'è bisogno che qualcuno muoia davvero per portarne il lutto), scaturiva dall'evidenza delle cose di lei. Le cose che sono io: il fatto che spesso chi mi ha voluto bene abbia creduto di dover soccombere al non potermi conoscere - che per starmi vicino sembrava dovesse accettare questo compromesso; il fatto che troppo spesso io non sappia, non riesca ad affrontare certe giornate; il vecchio timore di non poter avere un figlio un giorno perchè non è prudente, non è giusto crescere un figlio senza saperle affrontare, senza dare anche a lui la certezza, la serenità di poterlo fare, perchè dopotutto sarebbe così semplice... il timore di non poter avere niente, lasciare niente, ricordandomi delle cose che sono io.

Per aggiungere il collegamento alla scheda del libro ho letto la recensione di Gabriele Romagnoli: le ultime righe immagino siano quanto mi spetta.

* bah, probabilmente anche scorretto - ma d'altra parte, ho i miei capricci idio(ma)tici

posted by frammento at 06:04  0 commenti