lunedì, settembre 29, 2003

L'altra mattina ho ricevuto un sms fra i più graditi. Anzi ne ho ricevuti due dalla stessa persona, all'alba. Il primo era una risposta dal tono visibilmente piccato, se non iroso. Il secondo diceva: "Quello di prima non era per te, era per una stronza. Per te ho questo, ti voglio bene"
Mi rallegrano le sorprese - particolarmente gradite quelle della macchina che ogni settimana trova un modo diverso di manifestare il suo desiderio di rottamazione, o mio fratello che apre la porta a dieci amici e io indosso il berretto a sonagli e dei surrogati di ciabatte col pon-pon. Mi rallegrano le sorprese e questa inattesa dichiarazione d'affetto è stata deliziosa. Quel che mi dà da pensare è che pur sapendo di non aver fatto niente per suscitare una risposta, prima di passare al secondo messaggio avevo già scartato ogni possibile equivoco ed ero pronta a costituirmi. Sono fatta così: una ragazza complice. E trovandomi davanti "era per una stronza" stavo per far notare servilmente l'elisione dell'aggettivo 'altra'.
Questo perchè nei suoi confronti mi sento sempre in difetto, essendo nella sua vita io stessa una costante elisione.
D'altra parte, sa che con questa dichiarazione può ottenere più o meno tutto ciò che può volere da me, almeno per qualche tempo: che io non trascuri.
Nutro sempre la speranza di non avere ricadute, ma quando dico che sarà tutto come prima ho l'impressione che sappia che sono poco attendibile. E' sufficiente raccogliere qualche occasione persa e una manciata di ripromesse, e si ristabilisce l'ordine costituito - l'ordine cioè, di cui mi confesso responsabile. Sono insopportabilmente prevedebole.

 

prevedebole, agg. m., persona che si lascia di frequente sopraffare da circostanze niente affatto ineluttabili

 


*grazie per il suggerimento e profonde scuse a ebi

posted by frammento at 03:53  0 commenti  

venerdì, settembre 26, 2003


Mahalà
Dall'altura ferroviaria le case appaiono, come su un plastico, mozze a livello del soffitto e offrono alla vista nugoli di persone attorno a bidoni in fiamme che colorano le pareti nude di arredi luminescenti. Una bambina corre in un rivolo di fango all'angolo di una strada che porta il nome di Frumoasa, mi sale alle labbra una smorfia di sorriso, penso, frumoasa in romeno vuol dire bella.
Poco più avanti arrivano gli enormi monoliti grigi e fatiscenti, non così diversi dagli obbrobri dei nostri sobborghi, solo più enormi più monolitici più fatiscenti, e Martha cerca il mio sguardo per dirmi: in places like that in America - if you dare to go, they shoot you as they see you. Carica indice e medio, me li punta addosso e ride, lovely. Io sono troppo concentrata per darle veramente retta: sto cercando di distinguere, fra ciò che m'ha indicato l'italiano, un carcere da un'abitazione; per un momento, le recenti evasioni milanesi mi fanno valutare come indiziarie le lenzuola che scendono da un paio di finestre, poi ripiego sull'inoppugnabile filo spinato di cui l'altro edificio è adorno.
La periferia di Bucarest, mi dicono, non è davvero periferia, perchè non esisterebbe propriamente un centro se non individuandolo nel discusso Centru Civic voluto da Ceaušescu.
Lo dicono la mia guida, mucchio di carta inaffidabile, e l'altra guida, il signore al mio fianco, che nonostante si senta irragionevolmente responsabile nei miei confronti per tutta quella desolazione, non si fa scrupolo di abbozzare un "più o meno" quando mi volto dal finestrino terrea per supplicarlo: "non è tutta così..?"

L'amico milanese, l'insegnante bulgara, il genovese conosciuto a Sofia e questo stesso signore si prodigano per non escludere dalla conversazione alcuna delle sventure che in questa città ci potrebbero malcapitare; la Rough Guide consiglia addirittura di fermarcisi il minimo indispensabile e partire immediatamente alla volta della Transilvania o della Bucovina.
Se per una divinità non fosse troppo imperscrutabile o insensato o inutile (ripensandoci, potrebbero essere delle prerogative divine), sospetterei un disegno metafisicamente perverso nel convergere di tutte queste opinioni verso un'unica saggia conclusione: segregarci in una stanza d'albergo in cui spendere i due giorni che restano, nutrendoci di gogoši barando sulla colazione, immusoniti davanti ai campionati di atletica - perchè quando siamo all'estero ci sono sempre dei campionati di atletica e quello sportivo è sempre l'unico canale funzionante.
Per pagare la camera abbiamo bisogno di prelevare e ci trasciniamo a uno sportello che a causa del cambio, dopo un'allucinante sequenza di borborigmi bancomatici ci consegna una mazzetta di lei di volume spropositato; mentre salto sul portafogli per cercare di chiuderlo e a. mi copre, la macchina emmette un gridolino di soddisfazione ed erutta lo scontrino: non se accorgendomene prima avrei avuto abbastanza sangue freddo da fare un prelievo a una Transylvania Bank.
Eppure io non cedo. Mi disturba assecondare i preconcetti altrui o semplicemente attribuirmi giudizi non miei, accettarli a priori. Anche avendo la coscienza di badare in qualche modo alle raccomandazioni, di entrare con cautela in strade fantasma e di non aspettare fascinazioni facili, voglio appropriarmi di ciò che serve perchè l'amore o l'avversione verso questa città siano una mia personale affermazione.


Io ti sento Cani che abbaiano, cani che guaiscono, cani che uggiolano, cani che riversano tutto un vocabolario in un rullare d'abbandono, di fame, di rabbia; le gomme lisce, le marmitte delle Dacia trascinate sull'asfalto ("viva gli sposi! ma usano tutti le lattine just married attaccate alla macchina??"). Il suono della sera a Bucarest. Nelle vie vicino alla Dambovitza l'asfalto è un susseguirsi di ristagni d'acqua che s'attacca alle suole e crepe che rendono incerto - quando non infermo - il passo e ti portano cinicamente a chiederti dove diavolo sarà stato l'epicentro.

Ma io ho letto Cärtärescu, che scrive di vicoli luridi in cui fluisce l'infanzia inzaccherata di giochi di elettrizzante terrore, fra canali di scolo in cui si specchiano quegli squarci di cielo, ancor più vividi nella cornice di cemento, a cui alzare un dito dopo una narrazione senza fiato, stregati di infinito.
Maledetto, un suo racconto vela il suo mistero in questo Museo Grigori Antipa e pone la motivazione sufficiente a visitarlo. Eppure dovrei sapere che tutti i musei di Stori Naturale hanno qualcosa in comune che differisce solo nella lingua usata per le didascalie e in tutte le lingue mi inorridisce, la descrizione di una natura morta, gli animali impagliati: se amavo il museo di Milano quand'ero bambina era unicamente per un fossile appeso al soffitto, una (nei miei ricordi) enorme balena fragile e leggera sospesa in volo.

[scrive] Tolse il grande Baltrušaitis dal suo cofanetto di cartone e lesse la dedica: "A Gina, con amore, perchè si ricordi che, sotto il rococò osceno del nostro mondo e della nostra carne, le nostre ossa sono gotiche e il nostro spirito è gotico"

Le ossa di Bucarest si scorgono sotto le ferite aperte di vari scempi urbanistici, il loro biancore indecente è il memento di un incanto segreto. Nei viali afflitti da megalomanie architettoniche la bellezza trova rifugio in angoli inaspettati, incastrata fra le viuzze fetide dissestate regno dei traficantzi sonnacchiosi e i bulevard di negozi occidentali pieni di mercanzie ma raramente di clientela; la si urta per sbaglio in ardesie e cancellate di ferro elaborate, nelle dimore eccentriche o nelle costruzioni tradizionali: mi conquistano quei tetti aguzzi, le pendenze ardite, l'architettura spigolosa e ricercata, a tratti severa che nasconde tinte sfarzose immerse in un'aria scura.


Amandoti (sedicente cover soundtrack)
Abituati alla scala delle cartine bulgare, coinvolgo a. in un pellegrinaggio alla ricerca del tanto decantato Villaggio-Museo, un'area in cui sono state trasportate abitazioni contadine antiche da tutte le regioni della Romania.
Camminiamo per ore: sorpassiamo i cantieri aeterni e i romantici giardini Cišmigiu, la zona ministeriale, i palazzi con segni di proiettile mai rimossi, almanacchiamo casinò e casinò e casinò volgari, la caratteristica pavimentazione a crateri, guadiamo il fiume di automobili di piatza Victoriei e percorriamo l'ultimo tratto dei viali alberati ombrosi del nord, facendoci coraggio come possiamo Sei proprio tu John Wayne? E io chi sarei? perchè ci rendiamo conto di rischiare la morte per inedia o disidratazione o anche mera solitudine: non si trova un bar e neanche una misera fontanella e l'unico essere umano che incontriamo è un soldato dell'ambasciata americana a cui a. minaccia di farmi chiedere asilo per ottenere una razione di sopravvivenza. Il Villaggio-Museo si rivela una delusione perchè l'effetto complessivo, pur essendo tutte costruzioni originali, è una overdose di kitsch da miniatura. Ma lungo questi bulevard fino al parco Herastrau, Bucarest parla dolcemente di nostalgia e io le rispondo biascicando una strofa di canzone impostando un accento da Boulevard Saint-Germain.

Amarti m'affatica
mi svuota dentro
Qualcosa che assomiglia
a ridere nel pianto
Amarti m'affatica
mi da' malinconia
Che vuoi farci è la vita
E' la vita, la mia

L'ultima sera ceniamo alla locanda. Ho letto che a volte qui si canta la doina, che m'aspetto languida e commovente come un fado. Dopo qualche pezzo mi faccio una pessima opinione della tradizione musicale romena, ma poi parte una melodia nota e capisco che stanno suonando Gigi d'Alessio (sic). Rinuncio all'ascolto e cerco di farmi amico il menu.
All'arrivo della cameriera mi faccio forza e tento la frase in lingua. Lei mi risponde: "Parla romeno!" E io, confusa: "No, no, solo qualche parola" "Ah. Pensavo. Perchè ha pronunciato molto bene, sa? Comunque quello non c'è. E neanche questo. E questo. E quest'altro." E io confusissima: "Er--Thank you"

Ah signora! avrei affrontato tutto il viaggio anche solo per avere in premio questo riconoscimento delle mie due assurde settimane di studio. Peccato che le avessi chiesto semplicemente se avevano la macedonia.

posted by frammento at 11:19  0 commenti  

lunedì, settembre 22, 2003

Il mio tempismo è commovente. Non dico solo intendendo che fa piangere, c'è anche quello, ma trattandosi di immarcescibili recrudescenze karmiche, non voglio ivi contemplarle. Niente di grave, solo che: il biglietto aereo che ho pagato poco - ma ho pagato - la settimana dopo sarebbe stato gratuito; il libro di viaggio sulla città che ho visitato - sul suo ventre - era ancora in attesa, la settimana dopo sarebbe stato al mondo. Esprit de sfighé?

L'ho appena iniziato, e vedo che in copertina c'è un'elaborazione dell'ufficio grafico Feltrinelli. Sarà una citazione?


posted by frammento at 08:57  0 commenti  

Opporc. Questo mi ricorda che sono secoli che non chiedo un'assoluzione.

posted by frammento at 03:12  0 commenti  

venerdì, settembre 19, 2003

Un grumo di significato

posted by frammento at 06:47  0 commenti  

Un pomeriggio a Charing Cross Road, per una come me, dovrebbe essere rigorosamente vietato - gli inglesi dovrebbero mutuare un'ombra di ebbrezza prescrittiva dai bulgari e sfornare un cartello apposito.
In un paio d'ore a Charing Cross entro in librerie antiquarie, librerie remainders, librerie maxistore, librerie di viaggi, librerie di gialli e financo in librerie di sport.

Tocco copertine, segno autori in Italia inediti (sì ma dove, dove?? non trovo più la nota e desidero quel libro e non mi ricordo assolutamente né l'autore né il titolo - posso raccontare però tutto il primo capitolo), mi aggiusto istericamente gli occhiali davanti ai prezzi, faccio rapidi ma autistici calcoli e, nel caso della libreria sportiva, fotografo mentalmente tutta la tabella di allenamento di Michael Johnson, così da non arrivare impreparata al prossimo rush ritardatario verso l'aeroporto (e correre in modo altrettanto disneyano).
Fra le altre preziosità, negli scatoloni di un negoziante, trovo stampe giapponesi degli anni '30, chiuse a cilindro: le srotolo tutte, le rimiro come se dovessi apporvi una stiracchiata approvazione, e poi declamo ad a., nostalgicamente catatonico davanti a una cartina di Trieste, l'esborso richiesto, spassosamente londinese. E lo è anche il proprietario, sia londinese che spassoso, e ha una gran voglia di giocare o almeno così pare: quando mi si avvicina ringhiando, prendo uno dei rotoli, lui mi segue facendo volute col naso, io lancio all'orizzonte e lui corre disperatamente a recuperare.

Il problema di tutto questo deliziarsi, è che poi, pure con la spinta propulsiva della fuga, si arriva nell'unica libreria che ci si era prefissati di scandagliare fino all'ultimo granello bibliografico e si trova una placca metallica con inciso uno scintillante CLOSED.
A nulla vale fingere di non conoscerne il dolorissimo significato e attaccarsi al campanello, a nulla vale richiedere l'intervento di uno stranito poliziotto che non potendo far aprire il negozio almeno confermi che chiudere alle 17:00 di sabato è un crimine penalmente perseguibile. A nulla se non a farci raggiungere dal nostro ringhioso inseguitore: l'esorcente.

 

esorcente, part. pres. di esorcire, s. m. e f., gestore di negozio che attraverso particolari attitudini piega al suo volere commerciale, anche ingentemente britannico, umani posseduti da essenze bibliovore paranormali

 


posted by frammento at 06:25  0 commenti  

martedì, settembre 16, 2003


Milagro
Sembra impossibile reperire sigarette straniere in alcune città bulgare, ed è difficile persino nella capitale. Non essendo necessariamente monomarca ed essendo più propensa ad aspirare (ai) vizi locali (di conseguenza anche a farmi del male, se consideriamo le Victory) assecondo pigramente a. nell'orlandesca ricerca delle sue MarlboroLight. Ed è attraverso questa ricerca, vana finché effettuata nei normali tabacchini in cui si inciampa ad ogni vicolo, che giungiamo all'Illuminazione. La T luminosa, intendo, che in Bulgaria è invece (pregevole sineddoche) un'insegna deserticamente bianca al cui centro camelleggia il noto dromedario; nel cortile a cui esso invita, una immancabilmente abulica e forfetaria venditrice consegna l'oggetto dell'astinenza inabissandosi in uno scantinato dai muri glabri. Tutto, tenendo conto dell'immersione e del senno recuperato di a., a un prezzo comunque irrisorio.

Chissà cosa m'aspettavo di trovare in questa città, chissà quali vestigia. Scostandosi dalla convulsione di certe arterie ci si ritrova in enormi piazze contornate da sedi amministrative e museali. Ad attraversarle, il cuore di Sofia sembra senza ombre. Più che una lirica osservazione è la constatazione di un lieve malessere provocato dell'avvicendamento di senso d'oppressione causato dall'imponenza istituzionale (pur comune) e di panico agorafobico dato dall'imponenza spaziale a cui essa fa da contorno.
Ho idea che a molte di queste sedi siano state asportate escrescenze marmoree di Partito, ma che abbiano acquisito in compenso appendici balzane: costeggiando la vecchia sede dei Soviet, nella cornice del suo porticato l'orizzonte è un tendone con la virgola più globale, scolorita da un sole pallido - e ormai avvenuto just do(ne) it.
Due americani che ci chiedono la foto ricordo davanti a uno dei pochi monumenti comunisti rimasti intatti ingaggiando un incontro di Wrestling per chi deve alzare il pugno e chi fare il gesto delle corna. Mentre a. li guarda bisticciare dentro l'obiettivo mugugnando, io arbitro l'incontro. Intorno a noi, dei ragazzini poco esperti fanno evoluzioni sullo skateboard e incastrando i pantaloni a cavallo basso nelle ruotine, scandiscono i round.

A Sofia c'è la piccola accogliente chiesa ortodossa dall'aspetto moscovita famosa per i miracoli.
So di comportarmi come i turisti in Galleria e ancor più come quelli ad Aya Sofya, per non dire di quelli alla fortezza di Veliko Tarnovo, ma non resisto…. E questa volta chiedo proprio un'intercessione, pur sapendo che la mia nota miscredenza non mi rende una plausibile miracolanda.


Fra Sofia e Veliko delle montagne fresche e rigogliose appuntate di stazioni scalcinate. Nessun panorama mozzafiato, nessun sublime kantiano, ma una placida bellezza appacificatrice.

Alla fortezza di Veliko Tarnovo troviamo un pozzo, io mi avvicino a dei ragazzini di non so quale nazionalità, uno butta un sassolino e ci zittiamo rapiti dall'attesa del tonfo, che presto arriva alle nostre orecchie tese.
So di comportarmi come i turisti in Galleria e ancor più come quelli ad Aya Sofya, ma non resisto e butto dentro anch'io un sassolino (un masso) per esprimere il mio desiderio strizzando gli occhi. Nessun tonfo, nemmeno leggero. I ragazzini si allontanano imbarazzati e mi lasciano lì a gridare che il destino è quel che è, non c'è scampo più per me, anche se sarebbe più una sceneggiatura transilvana junior in un comico b/n.

La signora a cui bussiamo per la notte assomiglia straordinariamente a mia zia (se non fosse per i capelli magenta), è altrettando premurosa e ci guida a suono di pleeeeease con la mano a spazzare graziosamente l'aria per invitarci a seguirla. Inforca gli occhiali e mordicchia la penna mentre sillaba la nostra nazionalità per svegliare il marito spento davanti alla tv. Questi, spalmato letteralmente sul divano, cerca di riprendere una forma per bombardarci: "Italia beaucoup turistìk, Venetsia, Padua, Veronj, Florentsa. Italianos zumpatisch. Ah Italia mucho turistìk", schioccandosi un bacio sulla punta delle dita annuisce con un sorriso reverenziale che ci accompagnerà per tutto il soggiorno come una benedizione e che ci farà ottenere l'unico viaggio con tassametro mai esperito su un taxi (1 euro per circa 25 kilometri!) turco-bulgaro-romeno.


Don't worry, be hippy
L'entrata in Romania, per quanto diluita come uno scivolamento, è molto più tranquilla, a tratti perfino dolce, della sgradevole esperienza al confine turco-bulgaro.

Sarà anche per la circostanza non trascurabile di dividere lo scompartimento con un signore di nazionalità italiana residente a Bucarest.
Nel viaggio di quattro ore per coprire un centinaio scarso di chilometri quest'uomo abbondante e cordiale è un eccezionale calmante, pur sprecandosi in ansiogene raccomandazioni di accortezza. Richiama la mia attenzione sulle costruzioni zingare all'orizzonte, sulle strade appena visibili ai bordi remoti dei campi, con gentilezza mi distoglie da certi sfondi romeni fatti di carretti di legno e colori gonfi di luce, alla cui bucolicità è fin troppo facile cedere.

Poi, Martha. Una donna americana così serena, così sorridente, così entusiasta, in fin dei conti forse, così prevedibile. Mi faceva pensare che aggettivasse spesso in lovely, prima di aprire bocca, e dopo forse lo ha fatto.
Nella timida conversazione che ci siamo concesse (timida per colpa mia) mi dice d'essere in viaggio da sola da più di tre mesi fra Turchia e Bulgaria, e che adesso continuerà fino al Baltico. A parte l'aspetto hippy, le palpebre mezzo abbassate (le mie sono wide shut) e il largo sorriso potrebbe assomigliare a quacosa che vorrei fare. Essere, fare. Dico fare perché sono innegabilmente diversa, perché potrei essere altrettanto fiduciosa e avrei un altrettanto largo sorriso verso la gente, ma non ne ho verso la mia umoralità. E dove vorrei ridere mi sento tremendamente fragile e dove vorrei essere rassicurata, mi sento in colpa per aver dato modo ad altri di non rassicurarsi.


Più tardi le chiedo se ha stabilito quando avrà termine il suo viaggio e cosa ci sarà dopo. Mi interesso delle sicurezze che gli altri riescono ad avere o di quelle di cui possono (o dicono di) fare a meno e che io non posso; raccolgo dati per eventuali emulazioni. A dire il vero, la sua vita giorno per giorno mi sembra paradossalmente avere più certezze della mia. Un lavoro molto remunerativo ma trimestrale e poi intere stagioni di viaggio. L'avevo ipotizzato - l'alternativa sarebbe stata essere schifosamente o favolosamente ricca e non volevo farle il torto di credere questo, ne avrebbe diminuito lo charme - resta da capire quale sia il lavoro dei miei sogni e lei fa del suo meglio per accontentarmi. Ma no, è proprio un lavoro che non posso sognare, perché è pescatrice, anzi "pesscatorra", nei mari d'Alaska: mi mostra gentilmente fotografie di paesaggi glaciali, comprensive però di halicut appena pescati, ancora sanguinanti, cangianti e roridi nella luce boreale e poco ci manca che le rimetta sulle scarpe (non stivali) da pescatrice tutta la mia invidia. Sì insomma, sembra avere più certezze di me che ho una vita molto più stanziale e meno eccentrica, se non si tiene conto dell'eccentricità del mio rapporto con essa. Le ho espresso le mie rimostranze per la Rough Guide della Romania, proprio non m'è piaciuta, riportava numeri di telefono inesistenti e pessime cartine, ma ho visto che lei ha una Lonely Planet, e ne canto le lodi. E lei - certo, come ho fatto a non pensarci, mi do una immaginaria pacca sulla fronte svampita, mi comunica con una bonaria alzata di spalle che gliel'hanno regalata solo tre giorni fa. Era tutta prevedibile
questa anticonvenzionalità, questo anti-bisogno, ma io mi chiedo comunque, convenzionalmente, se sia felice. Chissà se si ferma anche lei a tirare monetine nei pozzi ed esprime desideri impossibili, sempre gli stessi da
quando è bambina. Chissà se le piacerebbe il libro di Merleau-Ponty che penso per lei, Orfeo musicante magico sui ghiacci artici.

posted by frammento at 04:11  0 commenti  

lunedì, settembre 15, 2003

Ieri a quest'ora stavo correndo per i corridoi della London Underground dopo una soleggiata mattinata a Portobello Road. Da non crederci! Da non credere che fossi là, non tanto che stessi correndo in metropolitana. E' un rito che amo onorare ogni volta che parto, questo del rush finale con crollo à la Philippide davanti allo sportello di un bigliettaio che mi comunica costernato che in realtà, per lavori di ristrutturazione, i treni partono in corrispondenza di tutt'altra fermata (mi pareva infatti di non aver tagliato nessun nastro e soprattutto di non aver ricevuto nessun sacchetto-premio con gli omaggi).
Avrei da scrivere su Londra, ma mi ritrovo ancora a rincorrere alcuni pensieri e stralci di resoconto del mio viaggio a Est: l'aver vissuto e scritto, quindi aver doppiamente vissuto quasi contemporaneamente i due estremi dell'Europa porta con sé una certa confusione.
Confusione che probabilmente ho metabolizzato sabato davanti in mezzo all'installazione 20:50 di Richard Wilson alla Saatchi Gallery. La contiene, è proprio il caso di dirlo, una stanza in cui si viene introdotti individualmente da un addetto provvisto di foglietto scaricaresponsabilità in cui si avvisa di non toccare, né far sfiorare i propri abiti da alcunché per la propria sicurezza. Entri piuttosto contrariato, chiedendoti cosa ci sarà da non sfiorare, tanto più che avanzi sul ponticello e ti sembra una semplice stanza, mentre fuori stanno esplodendo i più bei fuochi d'artificio che il Tamigi abbia mai visto. Ma poi una minuscola bolla dove non dovrebbe essere e l'odore che pervade l'ambiente ti rendono più vigile: il soffitto e il pavimento sono completamente simmetrici, e quello che scopri essere il riflesso non è né uno specchio, né acqua. E' un mare di petrolio.
Esplodere in esclamazioni di sorpresa in un luogo del genere (ti auguri che i più bei fuochi che il Tamigi abbia mai visto siano dall'altro lato della Galleria) è rischioso, ma sono frastornata dall'avanzare attraverso un paradosso: è appena controllabile l'istinto di toccare quella densità oleosa di illusione e deturpare sulla sua superficie quella simmetria perfettamente assurda, di raccogliere l'invocazione di quella perfetta spirale di stordimento* per turbare la bellezza di uno scarto di eco. D'altra parte, l'idea di queste installazioni non è proprio che vengano agite?

* (e forse Wilson aveva calcolato anche l'effetto dell'inalazione di idrocarburi)

posted by frammento at 11:13  0 commenti  

martedì, settembre 09, 2003


gioielli di bulgari
Siamo stanchi e incupiti dal viaggio. Il treno ha accumulato ritardo e un buon numero di stazioni sprovviste di indizi cartografici, se non sprovviste proprio di stazione, sicché non abbiamo la minima idea di dove ci troviamo. Lo stesso capotreno, interrogato su un approssimativo orario di arrivo a Plodviv improvvisa palesemente; tuttavia, ritenendo che sia una valevole garanzia, promette di segnalarci quando arriverà la nostra fermata. Vista la sollecitudine mostrata alla frontiera, scattiamo in piedi ogni qualvolta il treno imposta una frenata - del tutto inutilmente, considerato che la carrozza salta sui binari catapultandoci a turno contro la parete dello scompartimento ad immolare il nostro profilo migliore. In ogni caso i nostri rimbalzi non disturbano il vicino che russa con una certa convinzione, mentre il suo amico è intento ad inghiottire moscerini con la testa fuori dal finestrino, probabilmente ritenendoli un efficace tampone per la rakja ingerita.
Il capotreno ci stupisce offrendoci un çay, o meglio, offrendosi di prepararcelo a un euro a testa. Lo afferriamo gemendo perché ce lo serve in bicchieri di plastica incandescenti ma soprattutto perchè contemporaneamente ci informa dell'arrivo. Poi con una giravolta da cameriere di musical scompare dietro lo stipite sfumando un "not immediately, just the time for a tea". Forse ha aggiunto anche un da-doo-dee.
Finalmente, nonostante le ustioni, riusciamo a raccogliere i nostri averi e a scendere a Plovdiv. E - cosa sorprendente - appena arrivati, anche qualcun altro riesce a raccogliere (parte de)i miei averi.

Rumiz, Rigatti e Altan nel loro passaggio a Plovdiv hanno soggiornato all'hotel Leipzig, e dato che siamo vezzosamente letterari, abbiamo provveduto a telefonare da Istanbul per prenotare una camera. La prenotazione ce l'ha presa, (a detta di a., poi confermato dai fatti), una vocina garrula, che lasciava immaginare una cara vecchina che affittasse a prezzi modici una stanza in un modesto focolare con gatto. L'Hotel Leipzig è invece un mostro di cemento di una quindicina di piani e alla reception ci sono due giovani anglofone, entrambe dalla vocina garrula e piuttosto ostili.
Quando usciamo all'aperto il primo istinto è quello di rincorrere il treno e pregare il nostro Gene Kelly di riprenderci a bordo o anche solo di legarci all'ultimo vagone a rimbalzare sui binari (non sarà tanto peggio che rimbalzare contro le pareti). a. non aveva ancora fatto i conti con lo spaesamento dato dal non poter leggere neanche i nomi delle vie, non conoscendo il cirillico. Io, non avevo fatto ancora i conti con lo spaesamento dato dal lato grigio dei miei ideali: piani e piani di Hotel Leipzig visibili praticamente da ogni altura. Peggio, non avevo fatto ancora i conti con lo spaesamento dato dalla caduta dei miei ideali (nonché volgarmente dei *******): il MacDonald's (ad esempio) - anche con la caratteristica insegna in cirillico.
Più tardi però, nel cortile della chiesa ortodossa di Konstantin e Elena ci imbattiamo in una signora leggermente claudicante che tiene con due dita i lembi di un grembiule carico di fichi, ci sorride senza incisivi e ci fa cenno di prendere; con la bocca piena, scelta poco elegante ma che che maschera la pronuncia incerta, mi posso profondere nel primo sentito (e catartico) blagodarjà.


A Plovdiv ci sono delle donne straordinariamente belle, almeno fino ai trent'anni, e poco coperte: la cosa per me riveste un interesse relativo - se non per il fatto che dovrò aspettare Sofia per rincuorarmi vedendo un po' di cellulite - ma sicuramente non passa inosservata. Molti miei amici troverebbero Plovdiv sicuramente più interessante di quanto lo sia per me.
La città è antichissima, o almeno antichissimi i suoi primi insediamenti, ed ha avuto molti nomi e molta storia, anche recente. Ma perché mi sembra che si sia dimenticata di tutto e viva come senza appoggio, dondolante fra un estremità e l'altra del suo viale Hristo Botev?


you know, gypsies
La cosa più divertente da fare in una piccola cittadina bulgara quando hai esaurito le cose da fare, è decifrare la vastissima iconografia dei divieti d'accesso. Si notano sulle porte di negozi, locali ed esercizi pubblici vari, segnali prescrittivi di ogni genere e numero, spesso di laboriosa interpretazione, che suggeriscono tutto un ipotetico regolamentare:
- Divieto di accesso con armi
- Divieto di accesso con patatine
- Divieto di accesso con gelato
- Divieto di accesso con bambini
- Divieto di accesso con cani di piccola taglia
Non di meno, in una messe di segni del tutto mancante di standard iconografico, l'eventuale mancanza di alcuni segnali fa presumere che gli articoli da essi prescritti siano ammessi. Per cui, se in alcuni esercizi c'è lo specifico divieto di entrare con un kalashnikov, magari non c'è quello di entrare con una Beretta (come in altri). Se fosse vietato l'accesso a entrambi si può sempre entrare coi cani di piccola taglia. Al limite, se proprio fosse vietato l'accesso a entrambi e ai cani di piccola taglia, ma non agli altri, posso sempre tentare di entrare con un pitbull da combattimento. E così via.

Consumiamo una cena curatissima in un ristorante spettrale, durante la quale per adeguarci non facciamo che sussurrare cospirazioni, progetti di fuga dalla città. D'altra parte fuori il mondo sta scrosciando e il cameriere ha fatto partire per la terza volta "Life is Life" degli Opus: come non conferire a questo accanimento tautologico il significato che Plovdiv è Plovdiv, e il secondo giorno si sta facendo greve?

In stazione incontriamo una socievole signora che - dopo aver rinunciato a malincuore ad affittarci una casa, una stanza, un letto - con il pretesto di fare esercizio di inglese ci ha dato tutte le informazioni che non eravamo riusciti a estorcere all'uffico incaricato, pur essendo entrati con M16, patatine unte, gelato colante, bassethound al guinzaglio e moccioso al collo. La signora si informa sulle nostre future tappe e ci consiglia attenzione, scuotendo eloquentemente l'indice e strabuzzando gli occhi: "Bucurest, be careful, gypsies gypsies, you know, gypsies? Foreigners, trouble with passport. Take money. Here, not very much". Hristo!, penso, questa farebbe il paio con gli avvertimenti della guida sui finti poliziotti romeni - ma a dire il vero la mia mano corre protettiva allo zainetto più volte violato here da leste mani plovdviciane.

Alla fine riusciamo a partire per Sofia. Questa volta dividiamo lo scompartimento con un vecchietto asmatico munito di bastone e un padre con tre figli. Questi, saliti in una stazione secondaria, non si capacitano delle nostre facce non bulgare. Una delle bambine studia me e ogni oggetto uscente del mio zaino (due cicche mefitiche, un libro, un taccuino cum penna) come se uscisse dalla borsa di Mary Poppins - ci fosse stato il capotreno turco magari avremmo azzardato qualche passetto di danza - e riesce a richiudere la bocca stupita solo al momento della separazione. Di fronte a me ho il vecchietto e volendo dimostrare pietas per la sua asma e per la sua età, decido di buttare lì la frase che fa per me, l'ho cercata sul ParloBulgaro. Solo che nell'agitazione mi confondo e invece di chiedergli se posso aprire il finestrino, gli chiedo se può aprirlo lui: lo sguardo di disgusto di tutto il vagone mi fa intuire la mia involontaria rozzezza nei confronti di un anziano che si regge in piedi a fatica e tossisce a ogni folata e sfiora l'infarto per cavalleria (il gancio era naturalmente bloccato - "Non aprire la finestra per ventilare")!
Finito di soccorrere l'anziano gentiluomo, arriviamo nella capitale.


[continua...]

posted by frammento at 14:51  0 commenti  

lunedì, settembre 08, 2003

“Li conosco questi libri, i miei libri, dentro e fuori. Non di rado rifiuto di venderli solo perché non mi piacciono il viso o le mani di qualcuno. Riprendo il libro, scusandomi, e dico che non è in vendita. […]
Ma a certi librai non importa niente. Purchè i soldi passino dalle loro mani, venderebbero a chiunque. Questo io non posso farlo, e non lo far? mai.
Come potrei perdonarmi di avere venduto un libro a una persona che non mi piaceva?
[…]
Una cosa è universalmente nota sui librai: tra tutti, siamo i lagnosi più instancabili. Oltre, naturalmente, al fatto che siamo tutti un po’ strambi, incapaci di fare altro che vendere libri.
Ma chiedo, a questo punto: che altro c’è che valga la pena fare? Esiste un mestiere diverso, al di sopra e al di là del vendere e comprare libri? Scrivere forse? Spesso penso che tutti noi vorremmo fare gli scrittori, in fondo. Ma forse no.”

L.E. Usher, Miss

Quando decido di donare libri, in genere, non faccio errori. Ma venderli è un’altra faccenda. Solitamente se regalo un libro è a qualcuno a cui tengo o conosco bene, così come solitamente se regalo un libro è uno di quelli a cui tengo o conosco bene. Sceglierlo è un segno d’affetto: ma tante volte mi è difficile distinguere se sia affetto per il destinatario, o per il libro stesso. Non so se sarei capace di vendere quel che amo.
Dopotutto anch’io non potrei perdonarmi di avere venduto un libro a chi non mi piaceva: a volte non mi perdono neanche di avergliene semplicemente parlato.

Ma chiedo, a questo punto, soprattutto a questo punto - quando una giornata votata alla pioggia mi fa credere che sarebbe ora di sciacquare via tante parole: che altro c’è che varrebbe la pena fare, per me?

posted by frammento at 14:40  0 commenti  

venerdì, settembre 05, 2003



Cose turche
Imbraccio una pannocchia acquistata da un ambulante e addento con gusto per poi emergere dai chicchi con un sorriso abbrustolito, di colore locale - giacché questo spuntino delizioso lascia marchi temporanei distintissimi.
Dopo due notti in ostello ci concediamo un alberghetto con terrazza, o meglio ci concediamo una splendida terrazza su Sultanahmet dove illanguidiamo sui divanetti di ferro, chi deliziandosi della nuova macchina fotografica, chi cercando segretamente di mimare la postura da odalisca ingresiana. Dall'alto di questo palazzo, per una mezz'ora ventosa subiamo la vivace fascinazione di coreografie volatili fra le cupole e i minareti, prostrati davanti alle profondità e agli slanci del cielo ad oriente, dove gli ori fingono di liquefarsi al canto dei muezzin e fondere i punti cardinali in un'esplosione sequenziale di tonalità. E io avverto all'improvviso distintamente la malinconia che proverò nel ripensare alle panchine di pietra e legno verde che non sanno dove guardare - allineate come piccoli convogli oziosi - fra divine sapienze, dove spiluccare semi e bere il çay delle cinque, delle sei, delle sette, del dopocena, della dolce notte di Stamboul.

So di comportarmi come i turisti in Galleria, ma non resisto e infilo il pollice nella parete di Aya Sofya, effettuo una perfetta circonluzione di polso e ritraggo il dito: la sua umidità dovrebbe decretare la fattibilità delle mie brame. Che il mio predecessore patisse una forte sudorazione?
D'altra parte Istanbul è piena di luoghi per esprimere desideri: nella Cisterna si procede aggrappati al corrimano tastando ogni tanto col piede per accertarsi che ci siano terre emerse, e io mi incanto ad osservare l'espressione severa e raccolta da desiderante di mestiere, con cui la gente si avvicina alla Bocca del Desiderio. Forse è anche per questo che non trovo poi così singolare che la suddetta Bocca del Desiderio sia accostata a una Colonna del Pianto.

Cercando il traghetto per Üsküdar prendiamo la strada sbagliata e finiamo nel cuore di Eminönü in un giorno di mercato. Ci sono un paio di moschee che varrebbe la pena di visitare, ma ci ritroviamo immersi in una fiumana di gente che avanza placida e inesorabile verso fra due sponde di baracchini e ci accontentiamo di scansare carretti e venditori, appiattendoci di tanto in tanto al loro fianco per evitare collisioni. Dopo i fasti del Kapali Çarši, qui le mercanzie sembrano monotone e scialbe, non sono abbondanti, né presentate in modo accattivante. E' proprio come un mercato rionale quand'è l'ora di sbaraccare e rimane tutto sull'asfalto. Giace. Mi conquistano le facce di queste persone: la nostra presenza li sorprende perchè in quanto turisti non possiamo trovare niente di appetibile; eppure proprio per questo si scordano subito di noi e nessuno ci prende per il braccio o ci apostrofa in una lingua latina qualunque (la nostra facies induce), né perora il particolare approccio antropologico che deplora l'insostenibile pesantezza del turistico portafoglio.

Scendiamo dal traghetto e rimaniamo per qualche minuto brysonianamente prigionieri di una diabolica isola di cemento. Ma che importa: è Asia!
Costeggiamo a piedi il Bosforo contemplando Sultanahmet e le sue esotiche forme. Sugli scogli di Üsküdar, l'Europa ha un profilo orientale.



Bablefresh
"Non aprire la finestra per ventilare, altrimenti senza effetto l'aerazione di pressione automatica", recita la targhetta applicata all'altezza del mio naso.
A un primo sguardo mi complimento per il mio spirito d'osservazione " guarda come sono simili tutte le stazioni turche". Ma poi mi rendo conto che la geometria e la retorica mi giocano brutti tiri e conducono a sillogismi non corretti: scrivo seduta sul lavabo dello scompartimento, coi piedi nei calzini, coi calzini sul letto (di a. che dorme) e fuori dal finestrino mi sembra di scorgere qualcosa di noto. Ma non sto allucinando repentine nostalgie e non tutte le stazioni turche sono uguali; mentre rientriamo sbuffando a Sirkeci a ritardare il distacco da Istanbul, nelle cuccette a fianco ridono in bulgaro e scolano rakia.

"Where are you from?" mi chiede il turco.
"Italy" gli rispondo, ma intonando un melodico punto interrogativo sul finale; non tanto per
dimenticanza o per dubbio patriottismo (giacchè pare indubbio che io non ne abbia) ma per una veloce valutazione dell'effetto. Di riflesso cerco di sistemarmi il calzino, memore di quello in primo piano che è il particolare più penoso de "la Zattera della Medusa" di Géricault.
"Oh Italy, oh güzel!"
"Evet," dico stancamente, güzel, vagheggiando una indolore affrancatura di frontiera.
Scostando Güzel, si affaccia nello scompartimento il capovagone per mostrarmi con la sapienza di una hostess e più o meno con la stessa leggiadria, come serrare la porta; poi mi consiglia - mi ammonisce - mi ordina di fermarla con la sicura. Perfetto!
Lo ringrazio e mi sporgo a respirare il buio, in attesa. Là fuori, nelle tenebre che compongono il paesaggio, esiste solo una mezzaluna.

Tre ore di passaggio frontiera, facendo un calcolo generosamente difettoso. In realtà eccede incredibilmente le tre ore.
Dalla Turchia si esce un po' come te lo immagini se uno dei film che hanno angosciato la tua infanzia è Fuga di Mezzanotte.
Quando il treno apre le porte alla frontiera la temperatura è scesa di 10° e devi scendere e metterti docilmente in coda, rabbrividendo e saltando da un piede all'altro. Oppure, se ti spiegano cosa fare all'ultimo minuto, devi precipitarti giù correndo fra i binari con le scarpe slacciate e il drammatico calzino arrotolato sotto il calcagno, fino al gabbiotto della polizia. Alle 4 e mezza di notte un poliziotto ti scruta baloccandosi con l'idea di non afferrare i passaporti che gli tendi desolatamente remissivo, poi si siede alla scrivania, sfoglia rumorosamente e urla il nome, trovando foneticamente ingestibile il cognome, per esaminarti alla luce azzurrina della guardiola. Appone il timbro graziandoti per la tua irrilevanza, quindi ti caccia con un gesto, nei ricordi giureresti pure che t'ha spintonato; non è così, ma lo senti ugualmente seguire inclemente il tuo ritorno incespicante al treno.

*[a questo punto il cellulare era ancora in scena e vibrava di rassicurazione]



posted by frammento at 06:50  0 commenti  

mercoledì, settembre 03, 2003

Io sono una tremula goccia di rugiada
appesa a una foglia;
eppure non sono irrequieta
perchè mi sembra di pendere da questa foglia
da prima che il mondo nascesse

[Izumi Shikibu, Diario]

Da prima che il mondo nascesse, s'intende, per me. Inciampo sempre nel lirismo, in questa data. Cado in un risveglio profondo da un sonno come se non avessi dormito e mi domando perchè non ho ancora stropicciato gli occhi e mi sento già inevitabilmente stropicciata. E finisco per scegliere parole che non mi dipingono che per un soffio, perchè la quiete sta come d'autunno sugli alberi le foglie.


posted by frammento at 01:17  0 commenti  

lunedì, settembre 01, 2003

Ma no, non è esaurito del tutto il tempo sacro, o meglio spero d'aver sempre l'occasione di ritrovare appigli e di lasciarmici trasportare o con un maggiore sfavillio di tracciare circoli di sacralità, che salvaguardino i miei impulsi più iereconditi

 

ierecondito, agg., 1. misteriosamente lontano, non perchè distante ma perchè appartato, riposto in segreto sacrale 2. (scherz. - con scivolamento d'accento) reso più appetibile grazie all'aggiunta di sacro (di sacro vestito)

 


Per favorire il rientro nei ranghi del profano senza precludermi occasioni ho già indossato il ciondolo serendipico. Per? questa volta non ho trascurato di prelevare da una bancarella di Sofia un gioellino d'argento che mi faccia sfavillare sacri circoli temporali al dito, recentemente dotato persino di unghia piùchemillimetrica.

posted by frammento at 06:01  0 commenti  

Non riesco ancora a rassegnarmi al fatto che il mio tempo sacro sia via via esaurito, ho delle difficoltà a rientrare nei rigidi ranghi del tempo profano. Non riesce a consolarmi il fatto che io ci stia scivolando con una lentezza danubiana, forse perchè è inquinata da relitti di viaggio.
Ho una borsa pesantissima, oggi.

posted by frammento at 02:32  0 commenti