martedì, settembre 09, 2003


gioielli di bulgari
Siamo stanchi e incupiti dal viaggio. Il treno ha accumulato ritardo e un buon numero di stazioni sprovviste di indizi cartografici, se non sprovviste proprio di stazione, sicché non abbiamo la minima idea di dove ci troviamo. Lo stesso capotreno, interrogato su un approssimativo orario di arrivo a Plodviv improvvisa palesemente; tuttavia, ritenendo che sia una valevole garanzia, promette di segnalarci quando arriverà la nostra fermata. Vista la sollecitudine mostrata alla frontiera, scattiamo in piedi ogni qualvolta il treno imposta una frenata - del tutto inutilmente, considerato che la carrozza salta sui binari catapultandoci a turno contro la parete dello scompartimento ad immolare il nostro profilo migliore. In ogni caso i nostri rimbalzi non disturbano il vicino che russa con una certa convinzione, mentre il suo amico è intento ad inghiottire moscerini con la testa fuori dal finestrino, probabilmente ritenendoli un efficace tampone per la rakja ingerita.
Il capotreno ci stupisce offrendoci un çay, o meglio, offrendosi di prepararcelo a un euro a testa. Lo afferriamo gemendo perché ce lo serve in bicchieri di plastica incandescenti ma soprattutto perchè contemporaneamente ci informa dell'arrivo. Poi con una giravolta da cameriere di musical scompare dietro lo stipite sfumando un "not immediately, just the time for a tea". Forse ha aggiunto anche un da-doo-dee.
Finalmente, nonostante le ustioni, riusciamo a raccogliere i nostri averi e a scendere a Plovdiv. E - cosa sorprendente - appena arrivati, anche qualcun altro riesce a raccogliere (parte de)i miei averi.

Rumiz, Rigatti e Altan nel loro passaggio a Plovdiv hanno soggiornato all'hotel Leipzig, e dato che siamo vezzosamente letterari, abbiamo provveduto a telefonare da Istanbul per prenotare una camera. La prenotazione ce l'ha presa, (a detta di a., poi confermato dai fatti), una vocina garrula, che lasciava immaginare una cara vecchina che affittasse a prezzi modici una stanza in un modesto focolare con gatto. L'Hotel Leipzig è invece un mostro di cemento di una quindicina di piani e alla reception ci sono due giovani anglofone, entrambe dalla vocina garrula e piuttosto ostili.
Quando usciamo all'aperto il primo istinto è quello di rincorrere il treno e pregare il nostro Gene Kelly di riprenderci a bordo o anche solo di legarci all'ultimo vagone a rimbalzare sui binari (non sarà tanto peggio che rimbalzare contro le pareti). a. non aveva ancora fatto i conti con lo spaesamento dato dal non poter leggere neanche i nomi delle vie, non conoscendo il cirillico. Io, non avevo fatto ancora i conti con lo spaesamento dato dal lato grigio dei miei ideali: piani e piani di Hotel Leipzig visibili praticamente da ogni altura. Peggio, non avevo fatto ancora i conti con lo spaesamento dato dalla caduta dei miei ideali (nonché volgarmente dei *******): il MacDonald's (ad esempio) - anche con la caratteristica insegna in cirillico.
Più tardi però, nel cortile della chiesa ortodossa di Konstantin e Elena ci imbattiamo in una signora leggermente claudicante che tiene con due dita i lembi di un grembiule carico di fichi, ci sorride senza incisivi e ci fa cenno di prendere; con la bocca piena, scelta poco elegante ma che che maschera la pronuncia incerta, mi posso profondere nel primo sentito (e catartico) blagodarjà.


A Plovdiv ci sono delle donne straordinariamente belle, almeno fino ai trent'anni, e poco coperte: la cosa per me riveste un interesse relativo - se non per il fatto che dovrò aspettare Sofia per rincuorarmi vedendo un po' di cellulite - ma sicuramente non passa inosservata. Molti miei amici troverebbero Plovdiv sicuramente più interessante di quanto lo sia per me.
La città è antichissima, o almeno antichissimi i suoi primi insediamenti, ed ha avuto molti nomi e molta storia, anche recente. Ma perché mi sembra che si sia dimenticata di tutto e viva come senza appoggio, dondolante fra un estremità e l'altra del suo viale Hristo Botev?


you know, gypsies
La cosa più divertente da fare in una piccola cittadina bulgara quando hai esaurito le cose da fare, è decifrare la vastissima iconografia dei divieti d'accesso. Si notano sulle porte di negozi, locali ed esercizi pubblici vari, segnali prescrittivi di ogni genere e numero, spesso di laboriosa interpretazione, che suggeriscono tutto un ipotetico regolamentare:
- Divieto di accesso con armi
- Divieto di accesso con patatine
- Divieto di accesso con gelato
- Divieto di accesso con bambini
- Divieto di accesso con cani di piccola taglia
Non di meno, in una messe di segni del tutto mancante di standard iconografico, l'eventuale mancanza di alcuni segnali fa presumere che gli articoli da essi prescritti siano ammessi. Per cui, se in alcuni esercizi c'è lo specifico divieto di entrare con un kalashnikov, magari non c'è quello di entrare con una Beretta (come in altri). Se fosse vietato l'accesso a entrambi si può sempre entrare coi cani di piccola taglia. Al limite, se proprio fosse vietato l'accesso a entrambi e ai cani di piccola taglia, ma non agli altri, posso sempre tentare di entrare con un pitbull da combattimento. E così via.

Consumiamo una cena curatissima in un ristorante spettrale, durante la quale per adeguarci non facciamo che sussurrare cospirazioni, progetti di fuga dalla città. D'altra parte fuori il mondo sta scrosciando e il cameriere ha fatto partire per la terza volta "Life is Life" degli Opus: come non conferire a questo accanimento tautologico il significato che Plovdiv è Plovdiv, e il secondo giorno si sta facendo greve?

In stazione incontriamo una socievole signora che - dopo aver rinunciato a malincuore ad affittarci una casa, una stanza, un letto - con il pretesto di fare esercizio di inglese ci ha dato tutte le informazioni che non eravamo riusciti a estorcere all'uffico incaricato, pur essendo entrati con M16, patatine unte, gelato colante, bassethound al guinzaglio e moccioso al collo. La signora si informa sulle nostre future tappe e ci consiglia attenzione, scuotendo eloquentemente l'indice e strabuzzando gli occhi: "Bucurest, be careful, gypsies gypsies, you know, gypsies? Foreigners, trouble with passport. Take money. Here, not very much". Hristo!, penso, questa farebbe il paio con gli avvertimenti della guida sui finti poliziotti romeni - ma a dire il vero la mia mano corre protettiva allo zainetto più volte violato here da leste mani plovdviciane.

Alla fine riusciamo a partire per Sofia. Questa volta dividiamo lo scompartimento con un vecchietto asmatico munito di bastone e un padre con tre figli. Questi, saliti in una stazione secondaria, non si capacitano delle nostre facce non bulgare. Una delle bambine studia me e ogni oggetto uscente del mio zaino (due cicche mefitiche, un libro, un taccuino cum penna) come se uscisse dalla borsa di Mary Poppins - ci fosse stato il capotreno turco magari avremmo azzardato qualche passetto di danza - e riesce a richiudere la bocca stupita solo al momento della separazione. Di fronte a me ho il vecchietto e volendo dimostrare pietas per la sua asma e per la sua età, decido di buttare lì la frase che fa per me, l'ho cercata sul ParloBulgaro. Solo che nell'agitazione mi confondo e invece di chiedergli se posso aprire il finestrino, gli chiedo se può aprirlo lui: lo sguardo di disgusto di tutto il vagone mi fa intuire la mia involontaria rozzezza nei confronti di un anziano che si regge in piedi a fatica e tossisce a ogni folata e sfiora l'infarto per cavalleria (il gancio era naturalmente bloccato - "Non aprire la finestra per ventilare")!
Finito di soccorrere l'anziano gentiluomo, arriviamo nella capitale.


[continua...]

posted by frammento at 14:51  0 commenti