venerdì, settembre 05, 2003



Cose turche
Imbraccio una pannocchia acquistata da un ambulante e addento con gusto per poi emergere dai chicchi con un sorriso abbrustolito, di colore locale - giacché questo spuntino delizioso lascia marchi temporanei distintissimi.
Dopo due notti in ostello ci concediamo un alberghetto con terrazza, o meglio ci concediamo una splendida terrazza su Sultanahmet dove illanguidiamo sui divanetti di ferro, chi deliziandosi della nuova macchina fotografica, chi cercando segretamente di mimare la postura da odalisca ingresiana. Dall'alto di questo palazzo, per una mezz'ora ventosa subiamo la vivace fascinazione di coreografie volatili fra le cupole e i minareti, prostrati davanti alle profondità e agli slanci del cielo ad oriente, dove gli ori fingono di liquefarsi al canto dei muezzin e fondere i punti cardinali in un'esplosione sequenziale di tonalità. E io avverto all'improvviso distintamente la malinconia che proverò nel ripensare alle panchine di pietra e legno verde che non sanno dove guardare - allineate come piccoli convogli oziosi - fra divine sapienze, dove spiluccare semi e bere il çay delle cinque, delle sei, delle sette, del dopocena, della dolce notte di Stamboul.

So di comportarmi come i turisti in Galleria, ma non resisto e infilo il pollice nella parete di Aya Sofya, effettuo una perfetta circonluzione di polso e ritraggo il dito: la sua umidità dovrebbe decretare la fattibilità delle mie brame. Che il mio predecessore patisse una forte sudorazione?
D'altra parte Istanbul è piena di luoghi per esprimere desideri: nella Cisterna si procede aggrappati al corrimano tastando ogni tanto col piede per accertarsi che ci siano terre emerse, e io mi incanto ad osservare l'espressione severa e raccolta da desiderante di mestiere, con cui la gente si avvicina alla Bocca del Desiderio. Forse è anche per questo che non trovo poi così singolare che la suddetta Bocca del Desiderio sia accostata a una Colonna del Pianto.

Cercando il traghetto per Üsküdar prendiamo la strada sbagliata e finiamo nel cuore di Eminönü in un giorno di mercato. Ci sono un paio di moschee che varrebbe la pena di visitare, ma ci ritroviamo immersi in una fiumana di gente che avanza placida e inesorabile verso fra due sponde di baracchini e ci accontentiamo di scansare carretti e venditori, appiattendoci di tanto in tanto al loro fianco per evitare collisioni. Dopo i fasti del Kapali Çarši, qui le mercanzie sembrano monotone e scialbe, non sono abbondanti, né presentate in modo accattivante. E' proprio come un mercato rionale quand'è l'ora di sbaraccare e rimane tutto sull'asfalto. Giace. Mi conquistano le facce di queste persone: la nostra presenza li sorprende perchè in quanto turisti non possiamo trovare niente di appetibile; eppure proprio per questo si scordano subito di noi e nessuno ci prende per il braccio o ci apostrofa in una lingua latina qualunque (la nostra facies induce), né perora il particolare approccio antropologico che deplora l'insostenibile pesantezza del turistico portafoglio.

Scendiamo dal traghetto e rimaniamo per qualche minuto brysonianamente prigionieri di una diabolica isola di cemento. Ma che importa: è Asia!
Costeggiamo a piedi il Bosforo contemplando Sultanahmet e le sue esotiche forme. Sugli scogli di Üsküdar, l'Europa ha un profilo orientale.



Bablefresh
"Non aprire la finestra per ventilare, altrimenti senza effetto l'aerazione di pressione automatica", recita la targhetta applicata all'altezza del mio naso.
A un primo sguardo mi complimento per il mio spirito d'osservazione " guarda come sono simili tutte le stazioni turche". Ma poi mi rendo conto che la geometria e la retorica mi giocano brutti tiri e conducono a sillogismi non corretti: scrivo seduta sul lavabo dello scompartimento, coi piedi nei calzini, coi calzini sul letto (di a. che dorme) e fuori dal finestrino mi sembra di scorgere qualcosa di noto. Ma non sto allucinando repentine nostalgie e non tutte le stazioni turche sono uguali; mentre rientriamo sbuffando a Sirkeci a ritardare il distacco da Istanbul, nelle cuccette a fianco ridono in bulgaro e scolano rakia.

"Where are you from?" mi chiede il turco.
"Italy" gli rispondo, ma intonando un melodico punto interrogativo sul finale; non tanto per
dimenticanza o per dubbio patriottismo (giacchè pare indubbio che io non ne abbia) ma per una veloce valutazione dell'effetto. Di riflesso cerco di sistemarmi il calzino, memore di quello in primo piano che è il particolare più penoso de "la Zattera della Medusa" di Géricault.
"Oh Italy, oh güzel!"
"Evet," dico stancamente, güzel, vagheggiando una indolore affrancatura di frontiera.
Scostando Güzel, si affaccia nello scompartimento il capovagone per mostrarmi con la sapienza di una hostess e più o meno con la stessa leggiadria, come serrare la porta; poi mi consiglia - mi ammonisce - mi ordina di fermarla con la sicura. Perfetto!
Lo ringrazio e mi sporgo a respirare il buio, in attesa. Là fuori, nelle tenebre che compongono il paesaggio, esiste solo una mezzaluna.

Tre ore di passaggio frontiera, facendo un calcolo generosamente difettoso. In realtà eccede incredibilmente le tre ore.
Dalla Turchia si esce un po' come te lo immagini se uno dei film che hanno angosciato la tua infanzia è Fuga di Mezzanotte.
Quando il treno apre le porte alla frontiera la temperatura è scesa di 10° e devi scendere e metterti docilmente in coda, rabbrividendo e saltando da un piede all'altro. Oppure, se ti spiegano cosa fare all'ultimo minuto, devi precipitarti giù correndo fra i binari con le scarpe slacciate e il drammatico calzino arrotolato sotto il calcagno, fino al gabbiotto della polizia. Alle 4 e mezza di notte un poliziotto ti scruta baloccandosi con l'idea di non afferrare i passaporti che gli tendi desolatamente remissivo, poi si siede alla scrivania, sfoglia rumorosamente e urla il nome, trovando foneticamente ingestibile il cognome, per esaminarti alla luce azzurrina della guardiola. Appone il timbro graziandoti per la tua irrilevanza, quindi ti caccia con un gesto, nei ricordi giureresti pure che t'ha spintonato; non è così, ma lo senti ugualmente seguire inclemente il tuo ritorno incespicante al treno.

*[a questo punto il cellulare era ancora in scena e vibrava di rassicurazione]



posted by frammento at 06:50  0 commenti