venerdì, agosto 15, 2003

[...continua da una mail che avrebbe potuto solo ingiustamente proseguire così] Non rifiuto qualsiasi legame ancor prima che inizi. Mi ripeto che non è possibile che stia iniziando niente e mi batto dei pugnetti indagatori sulla testa per capire se sto ragionando con la parte recidiva del cervello - operazione assolutamente inutile se non per il fatto che mi crea degli ematomi mnemonici.
Ma no, insomma. Non si tratta semplicemente della considerazione che tutto è effimero e io sono pessimista e cerebrale (anzi cerebrotica) né cerco di estinguere le passioni perchè vedo in esse la causa del dolore, anzi. I sentimenti sono sempre intensi, ma la prepotenza del singolo sconcerta, si penserebbe di essere avvezzi e invece si presenta con una subitaneità e richiede una concentrazione tali che non sono riscattabili con la semplice affermazione, tanto che alla fine l'unico modo per ripararsi è negare, anzi negare che possa esistere una qualsiasi comunicazione. Mi riesce
difficile pensare che ciò possa accadere avendo me come pretesto, e perciò in genere quel nego agli altri è proprio la possibilità di affermarlo, pur sapendo di comportarmi in maniera intollerabile con chi lo pretende.
A volte penso: perchè parlate? ma penso anche: voi non sapete che cos'è voler bene (non dico "l'amore" non per eufemizzare ma perchè non è solo di quello che parlo e che dico). Semplicemente protesto: falso. Penso a “E ti vengo a cercare"(meglio se cantata dai CSI): una sfilata di immagini battiatesche, anche se non di quelle sue solite esuberanti di concetto e algide (la tua presenza per capire meglio la mia essenza, il sentimento che nasce da meccaniche divine, il rapimento mistico e sensuale) - ma in fondo, in fondo ti vengo a cercare perchè sto bene con te. E allora perchè parlare?
Di più, la naturale vocazione all'addio di certi rapporti sicuramente avviene per immarcescibile esprit d’escalier, ma anche per coscienza del fatto che una volta conosciutami, chi mai potrebbe voler continuare a farlo?
Limito a questo la sessione di autolesività, dove ancora è sensato terminare e perchè la successiva inquisizione diventerebbe troppo facilmente la questione della mia effettiva volontà di essere conosciuta: e non posso ammettere di avere soltanto timore di rimanere imprigionata a chi mi conosce – chi mi conosce, di cui sono schiava.
Se non fossi l’atea che sono forse sarebbe più semplice, sarebbe solo un altro esercizio di fede: cercare di leggere una persona, è sempre un esercizio di interpretazione, ma è inevitabile che la propria destrezza interpretativa si rassegni davanti ad un confuso viluppo di segni (che è l’altro) e di sintomi (che è egli stesso) – e di sogni – qual è una relazione umana e se mi guardi io non ti vedo ma mi ricordo del nostro amore.
Possibile che le parole siano tanto rilevantiì? In una foresta di simboli e di corrispondenze equivocabilissime non resterebbe che aver fede nelle affermazioni. Ma non è questa la fede che voglio abiurare?

Ecco. Adesso rileggi quanto hai letto finora e abbi la gentilezza di credere che dicendo il contrario io sia comunque intimamente e coerentemente sincera.
Nessuna delle due è menzogna, è solo un'alternanza di schermi in cui a volte protegge la rinuncia (il semplice silenzio), a volte lo slancio: quel che rimane immutato è il desiderio che sì, è vivifico. Mi ripeterò, una cosa che mi affascina della linguistica è scoprire quante modalità di esprimere l'azione, il pathos, il numero del soggetto che agisce o che patisce, abbia adottato l'uomo per esprimersi; ma nessuna struttura grammaticale che possa esprimere sé integralmente, a tutto tempo.
Il contrario poi quale può essere per un discorso che è un amalgama di troppi cenni personali? Un contrario può essere che mi ritrovo ad appuntare la chiosa di questa lettera che lettera non può essere perchè ha una facciata fin troppo analitica (fatta di caratteri dall'aspetto fin troppo analitico), su un foglio volante, con la mia più involuta e privata calligrafia per concludere che di tutto ciò che vi ho riversato riconosco solo una parte, la riconosco perchè è quel che si può dire.
Quel che non si può dire (SE FOSSI una figura retorica, sarei una preterizione, lo sapete) è ciò che mi fa sentire quasi abietta ancora più perchè non dovrei, ed è il bisogno di parole, il bisogno di affermazioni, il bisogno d'affetto e il desiderio stesso di queste necessità. Non lo ammetto quasi mai.

* per qualcun’altro: no, eh, non c'entra con la famosa princesse :O

posted by frammento at 14:26  0 commenti