giovedì, ottobre 24, 2002


mmm, stavo ascoltando una radio portoghese, tanto per nutrire un po' la mia saudade... una tizia che litiga telefonicamente, sbatte il telefono, dice che esce col primo che incontra (ma poi vorrei sapere se lo fa visto che) si trova un cretino inguantato e ingrembiulato (so che non è una bellezza da leggere, ma anche la pubblicità..) che le dice "boanoiteeeeee".
imbarazzante.
poi uno sulla crisi della FIAT si fa delle domande e trova anche le risposte... eehh



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mercoledì, ottobre 23, 2002

corrispondenze/1

per tutte le
stagioni


* I (HAROLD BUDD/BRIAN
ENO - 'A STREAM WITH BRIGHT FISH')
in uno specchio, la perplessità di un sorriso


* II (HAROLD BUDD/BRIAN ENO - 'THE PEARL')
un origami, un cigno con le ali spiegate (piegate in una posa di carta) pronte a volare, che non volano mai
Adesso tutto è silenzio oscurità e attesa,
io ritaglio, sfrondo, recido.
Un triplice composto movimento del tagliare
dedicato al passato molto prossimo e mai passato
disegna sospese iconografie ad uso del presente:
origami costruiti con pagine gonfie di memoria
sbavata con lacrime di inchiostro,
nero di pupilla, nero di notte, nero di caffè.
* III (MICHAEL NYMAN - WATER DANCES(I): STROKING)
in una grotta, il mondo che ingoia se stesso, si interpreta e si perpetua in forme di ghiaccio in lenta, eterna mutevolezza, senza ombra
Sento la curva imperfetta delle gambe piegate
nascoste nell'angolo buio del balcone.
è casa è notte è semiveglia di calura; scambio
la mia materialità per un notturno di garofani enormi, giganti che ingombrano la vista,
strozzano l'urlo della città in un imbuto:
un filtro di tenebre dalle pareti di porpora
che ingoia nomi e forme e battezza d'irrealtà.
* IV (MICHAEL NYMAN - WATER DANCES(III): SYNCRONISING)
una frase ricevuta in regalo, affidata alla carta di una bustina di zucchero per lenire la sua amarezza involontaria
Su questa strada il tempo incede indolente;
un insolito scirocco screzia l'aria di fuoco,
tiepide folate alzano mulinelli di foglie
dal docile mare che crepita al mio passo:
è improvvisamente semplice frantumare la materia
delle cose in un mosaico di brezza e colore,
i cui eterei tasselli, ruvidi di stupore,
creano un'immagine languida d'abbandono.
* V (MICHAEL NYMAN - WATER DANCES(II): GLIDING)
in una pozzanghera, curva, fango e scintille di luce nell'aria tagliente dopo la pioggia invernale
Il buio prende vantaggio quotidiano sul giorno,
una collana d'ore s'illumina dell'artificio
di luci accese delle case e dei lampioni.
Parole e persone emergono dalla foschia algida
come da un sonno inquieto senza sogni;
solo nel peso trovano la conferma d'essere:
dicembre è un monumento fragile
alla volubilità scolpito nella nebbia.



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mercoledì, ottobre 16, 2002

un grande "spassibà" a *StrelniK ;)



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siamo alla seconda settimana di lezioni, cose notevoli.
sarà che l'edificio che ospita la scuola di giorno è un liceo e sarà che per andare al lavoro la mattina passo lì davanti e vedo sempre i ragazzini seduti sui motorini che temporeggiano prima di entrare (quando non prendono la direzione opposta al portone), ma quando mi siedo al mio posto, non fosse per il buio delle sei e per i compagni non proprio liceali, sentirei qualche anno in meno sul groppone.
L'altro lunedì, preparandomi per il lavoro mi son chiesta: oddio cosa si porta il primogiornodiscuola? quaderno e penna, sìì? magari, gli occhiali, non mi va di strizzare gli occhi del tutto inutilmente davanti alla lavagna - e ai nomi delle fermate del metrò
così poi è finita che sono arrivata in classe ho appurato che i banchi e le aule delle scuole pubbliche non sottostanno alle leggi evolutive (scema che sono, si parla di migliaia di anni), e naturalmente ho cercato posto all'ultima fila, se possibile, o giù di lì.
entusiasta, entusiasta, dopo la prima ora e mezza mi son trovata a fare arabeschi con la penna e ad appuntare già a chi somigliava la prof., almeno se appartenesse al mondo animale, vegetale o minerale (ed avendo qualcosa di michael jackson - il naso, il naso - e qualcosa di una sandra milo travesita da preside di Grease, trovavo qualche difficoltà).
sono una persona che vive l'attualità, in un certo senso, e una controllatina alle spalle della cattedra mi sembrava d'obbligo: l'aula 18 è provvista del crocifisso regolamentare, l'aula 15 ha solo la sagoma prodotta dalla passata esposizione, che ha lasciato il posto alla scritta FUCK BUSH (le nuove leve danno qualche speranza)
sembra piuttosto che l'occupante diurno del mio banco in aula 15 non ami vedere sulla sua lavagna gli ideogrammi delle lezioni serali, tanto da farlo vergare con un certo astio "cina merda", a cui una mano risentita ha aggiunto "e giappone". Lo perdono solo perchè sembra che sia anche interista, fra le altre cose, ma potrei cominciare ad appiccicare cicche che gli si attacchino ai pantaloni, o rovesciargli briciole di patatine nel sotto-banco o disegnargli tanti femminei cuoricini e scrivere reprimendo il disgusto milan milan aléalé
e poi che bello ho conosciuto due appassionati di murakami e della mongolia, abbiamo avuto dieci minuti di handshaking in cui al posto dei versacci del modem volavano titoli di libri con un entusiasmo da scambio di figurine mancanti e solo una volta completata la collezione abbiamo cominciato a rilassarci e ad emettere suoni riconoscibili

Insomma, sono contenta. la mattina penso che tre anni sono un tempo troppo lungo perchè il mio entusiasmo perduri, e la sera penso a quanto mi piace l'aria d'oriente, mentre aspetto lì al confine con la nostra chinatown.


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giovedì, ottobre 10, 2002

Si dedicano i post? Non è che a farsi dedicare un post da me, al destinatario cambi qualcosa, ma qui è questione di "corrispondenze".
Insomma questo è per enzo di POLAROID, blog che leggo quotidianamente, e fra parentesi (adoro) :)
Leggo che ha appena finito The Buddha of Suburbia, Il Buddha delle periferie, di Hanif Kureishi e questo non può che avvicinarci: l'anno scorso è stato la mia scoperta e nel giro di un paio di mesi ho letto tutto ciò che di suo si poteva trovare (compresa la sceneggiatura di My beautiful laundrette, non trovando il film) e ho registrato fortuitamente da raitre 'Londra mi uccide', praticamente introvabile in Italia - cosa di cui ancora mi bullo.
Colgo l'occasione, ma avrei voluto scriverne comunque, mi piacerebbe fare un raffronto fra lui e altri scrittori. Per esempio Michel Houellebecq, il suo contrario come stile, come espressione, come origine, come visione del mondo e della scrittura: l'esatto contrario. E Jonathan Coe: la stessa capacità di Kureishi di scrivere in modo emotivo, caldo, intimo - di commuovere, nel senso più totale.
Si prova nostalgia per ciò che si è letto? Quando sento di qualcuno che sta leggendo per la prima volta Kureishi, Jonathan Coe o Haruki Murakami divento meschinamente gelosa stai leggendo di me!
L'anno scorso è uscito un film di Patrice Chéreau, Intimacy, tratto da suoi racconti e da lui curato; naturalmente mi son fiondata al cinema, son tornata a casa e ho scritto... ma all'epoca non avevo mica un blog.
Lo riverso qui a un annetto di distanza, tanto per dire che non sono poi così cambiata.

Non faccio nemmeno il tentativo di essere imparziale, cioè onesta, nel dare un giudizio al film.

Dopo tutto troverei ingiusto essere imparziale per un film che ho caricato di tante aspettative, e troverei ancor più meschino non essere palesemente di parte visto il coinvolgimento emotivo che mi procurano i libri di kureishi.

Cosa penso. No, non penso - niente di corporeo, al contrario del film, così fisico e materiale.
Adesso non riesco più a scindere l'impressione, quella che rimane addosso al momento, da ciò che hanno portato i giorni successivi: un angoscioso ma piacevole motore di perplessità; s'insinua, gioca con la soddisfazione di aver visto ciò che desideravo e più.
Mi piace persino l'immagine scelta per la locandina, i suoi colori scarni, la luce glabra che scolora e asciuga i corpi, la mano maschile che si appoggia con un che di brutale - che afferra la testa femminile, l'immobilità delle membra che suo malgrado evoca qualcosa di convulso.
Un convulso composto di bellezza e disagio; una sostanza che restituisce gradualmente i suoi effetti, che si lascia assorbire con lentezza, in profondità, fluidifica le impressioni, le scioglie in nutrimento per sangue, cuore, cervello.

Assimilata, è difficile da smaltire; rimane in circolo e come nutre, divora.


Perché sono così difficili le relazioni umane? perché la comunicazione è così dolorosa, così equivoca, così violenta?
I bambini e gli dei usano le parole per battezzare la realtà, i suoi fenomeni, i suoi componenti: creano il mondo.
Gli uomini le usano per descriverlo, ma le parole sono proiettili, sono bombe che hanno il potere di manipolarlo, confezionarlo, dimensionarlo, costringerlo, violentarlo…
La felicità, la si ricerca nei modi più disparati, più disperati; si cerca di fuggire il dolore. Così, a volte è più semplice, o semplicemente inevitabile, non parlare.
Parlare toglie potere all'immaginazione, quella che fa accettare ciò che si vede - senza la mediazione della descrizione, del racconto celebrativo di sé o dell'autocensura - ciò che si vede, come dire anche solo ciò che si immagina, si fantastica, dell'altro.


Crudo e prosaico, cadente e scabroso come due corpi non giovani, non particolarmente belli, nudi dopo l'amplesso; in una cantina male illuminata, squallida, in una periferia desolante mattoni rossi e nebbia, nessun indizio di benessere o serenità.
Come sono nudi i corpi, è nuda l'intimità della persona, spogliata di sé, delle sue tracce. Il sesso in sé, atto disadorno di parole o di coscienza dell'altro è il massimo dell'intimità senza nessuna intimità.


La negazione della parola e di ciò che l'altro esprime in maniera diversa dalla pura fisicità è il rifiuto ad accettarlo come distinto dal prodotto dell'immaginazione, del desiderio che egli sia come la propria fantasticheria ha deciso che sia.
E' come se fosse frammento di sé mutuato, adattato sulla pelle dell'altro.

Quanto si è disposti a cedere della propria 'immaginazione'e del riflesso dell'altro che questa ha figurato?

Quanto si è disposti a consentire che l'altro intacchi la compattezza della propria realtà (illusoria, ma di cui si è creatori e possessori) con il suo essere - sentire, pensiero, parola, corpo, quotidianità?

Quanto si è disposti a cedere di sé?


*If you speak to someone, what might happen?*


riflussi, riflessi ----------------------------------------------------------------------------------------- riflessi, riflussi


*If you speak to someone, what might happen?*

Quanto si è capaci di non credere all'illusione della comunicazione?

No, non è solo il parlare, è ovvio. Ma quanto si può riuscire a fuggire il desiderio di comunicare?
Si prova a decidere quale direzione dare alla propria volontà.
Vegliare sulla propria superficie! Galleggiare a morto, col sole che scalda il viso e un sorriso ebete di compiacimento. Non è così male.
Ma per quanto tempo si può stare senza avvertire un'inestinta cancrena dell'io, chiaroscuro peso che la luce deforma sotto la linea di galleggiamento?


*e voglio un pensiero superficiale/ che renda la pelle splendida/ senza un finale che faccia male/ con cuori sporchi e mani lavate*


Per quanto tempo si può riuscire a scacciare il bisogno della confidenza, il senso del totale, del totalizzante desiderio di conoscenza dell'altro?

E però, rimane impossibile la fedeltà a se stessi nel raccontarsi. In bene o in male.
Rimane l'inettitudine all'empatia nei confronti dell'altro, troppo condizionata dalla propria disposizione nei suoi confronti, o degli altri tutti.
Forse si riesce a capire qualcosa del sentire di un altro, sì, ma dal proprio punto di vista: si può indossarne i vestiti, calzarli a pennello, ci si potrà momentaneamente sentire 'come' l'altro, non sentire quello che egli sente. Mai.

Si prova a decidere quale direzione dare alla propria volontà. Oh sì!
Ma l'irrazionale, l'inconscio, il sentimento sono speciali per prendere a calci in culo periodicamente la volontà e la ragione, la compostezza e la diplomazia...
E specialissimi per strappare il sipario delle innumerevoli combinazioni ('è meglio parlare/non parlare, fare/non fare, comportarsi/non comportarsi, essere presente/scomparire e - come se si potesse - voler bene/non volerne') che la volontà di non soffrire o di non far soffrire imporrebbe… e lasciare un nudo palcoscenico viscerale.

Finalmente inequivocabile? Mah.
Quand'è che va in scena la verità?

La tentazione di lasciare questo palcoscenico nudo, a volte, sembra necessità. Sarebbe l'approdo del calcio in culo alla ragione.
Mi basta la capacità di provare questa tentazione per stimare l'essere umano.
Nessuna scenografia, nessun calcolo!
Puro Sé.
Ma questo significa anche consegnarsi all'inevitabile paura del vuoto...

Un vuoto imbastito da una congerie di svariati personaggi.

L'insicurezza, il giudizio dello 'spettatore', la fragilità dell'impianto scenico, la consapevolezza di avere un'insoddisfacente coscienza di sé: così relativa (al momento, all'esperienza, alla situazione), così limitata, così multipla e, di conseguenza, così parziale!

Ma poi, sarebbe davvero 'puro sé'?
Quanto pesano la volontà, la ragione, l'istinto, il desiderio, il sentimento nell'essenza di una persona? e quanto il vissuto sociale?
Forse non esiste un nucleo di sé, di io, puro; forse il sé è soltanto un contenitore con il fondo bucato in cui entra e scivola via l'esperienza, incidendo sulle pareti interne stratificati pittogrammi di memoria…

Siamo costituiti da 4/5 litri di acqua.
Io per parte mia, sono una medusa messa ad agonizzare sulla spiaggia, acqua rapita all'acqua, indistinto cadavere di niente sciolto al sole.

Perché sono così difficili le relazioni umane?



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lunedì, ottobre 07, 2002

Vorrei parafrasare De André, dire: pensavo, è bello, che dove finiscono le mie dita debbano incominciare parole stampate.

Leggere, credo di farlo bene. Sono una lettrice generosa che empatizza coi suoi personaggi, con gli autori e purtoppo anche con i librai. Solo con gli editori un rapporto controverso: da quando ho uno stipendo fisso, mi son resa conto che cammino su un crinale pericolosissimo, e se prima o poi scivolassi nel versante patologico della bibliofilia gli farei causa, mi farei pagare le terapie disintossicanti a base di edizioni economiche di autori barbaramente commerciali, usate, con le orecchie per il segno su pagina tre ché più avanti non si poteva andare.
Ho letto in questi giorni un articolo sui cosiddetti 'lettori forti'; credo di rientrare di forza nella categoria per indubbia esperienza, ed evidentemente lo crede pure qualcun altro dato che appena diventato genitore mi chiede se deve leggere molte fiabe alla sua bimba - e sicuramente non me lo chiede in virtù di una mia indubbia esperienza nella gestione della prole.
Lettori forti, infatti (secondo la ricerca), lo si diventa perchè si è stati cresciuti da genitori che hanno speso molto del loro tempo a raccontare favole, a inventarle, a leggerle, a farle apprezzare, a farle mancare quando non ci fossero state. Oppure, si diventa lettori forti per questioni caratteriali o perchè l'ambiente intorno induce al desiderio di rpiegare in un mondo più appagante e apparentemente più sicuro.
Di certo i miei hanno dovuto leggermi milioni di pagine, spesso le stesse, e illustrarmi immagini a parole e far diventare epici - perchè io ero ingorda di queste tranches de vie - i loro ricordi "raccontami di quella volta"
(certo la sigla iniziale delle cassette dei "Raccontastorie", posso ancora imitarla senza esitazioni - ma esitate a chiederla perfavore)
Non so quanto giochi la componente innata e quanto l'esperienza; quindi per conto mio, non so in che categoria potrei rientrare, penso in tutte e due, penso in infinite altre.
In ogni caso, è vero amore. E devozione.

C'è un libro che ho letto ultimamente che non può che toccare gli animi sconvolti dall'ossessiossione libresca (e magari anche da quella per le lingue straniere e, nella peggiore delle ipotesi per il giapponese); è di Helen Dewitt, il titolo è "L'ultimo samurai":
saranno circa dieci giorni che l'ho finito e ancora non riesco a farmene una ragione. Alla seconda pagina soffrivo già all'idea che l'avrei prima o poi terminato, e sapevo che avre ipatito perniciose sindromi d'abbandono quando il momento fosse arrivato (per arginare la disperazione ho dovuto attaccare con un Bryson, utile anche per trovare posto in metrò dato che di solito gli scoppi di risa solitari non sono apprezzati). E infatti.
Una cosa che amo sono i libri che parlano di libri, l'arte che parla di arte; un'altra sono le trame che ne nascondono molteplici, come quando un personaggio si mette a raccontare una lunga storia; e un'altra ancora sono i raffinati giochi di cultura, sempre che non siano pure esibizioni; e poi apprezzo l'inserimento di stralci di sceneggiature, brani, citazioni di libri, culture e personaggi di cui poco si sa, ma che esercitano un fascino incantatore.
E quando si riesce a fare in modo che tutto questo rientri in un'architettura splendida, beh...
In copertina il libro ha una foto (riquadro medio, centrata, in alto, in mezzo al bianco einaudiano) di una donna con un bambino e un libro sulle ginocchia. La curiosità e la protezione. Forse, in sintesi, quello che si cerca nei libri.
Non so chi scelga le copertine, ma sono solidale.


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