lunedì, ottobre 07, 2002

Vorrei parafrasare De André, dire: pensavo, è bello, che dove finiscono le mie dita debbano incominciare parole stampate.

Leggere, credo di farlo bene. Sono una lettrice generosa che empatizza coi suoi personaggi, con gli autori e purtoppo anche con i librai. Solo con gli editori un rapporto controverso: da quando ho uno stipendo fisso, mi son resa conto che cammino su un crinale pericolosissimo, e se prima o poi scivolassi nel versante patologico della bibliofilia gli farei causa, mi farei pagare le terapie disintossicanti a base di edizioni economiche di autori barbaramente commerciali, usate, con le orecchie per il segno su pagina tre ché più avanti non si poteva andare.
Ho letto in questi giorni un articolo sui cosiddetti 'lettori forti'; credo di rientrare di forza nella categoria per indubbia esperienza, ed evidentemente lo crede pure qualcun altro dato che appena diventato genitore mi chiede se deve leggere molte fiabe alla sua bimba - e sicuramente non me lo chiede in virtù di una mia indubbia esperienza nella gestione della prole.
Lettori forti, infatti (secondo la ricerca), lo si diventa perchè si è stati cresciuti da genitori che hanno speso molto del loro tempo a raccontare favole, a inventarle, a leggerle, a farle apprezzare, a farle mancare quando non ci fossero state. Oppure, si diventa lettori forti per questioni caratteriali o perchè l'ambiente intorno induce al desiderio di rpiegare in un mondo più appagante e apparentemente più sicuro.
Di certo i miei hanno dovuto leggermi milioni di pagine, spesso le stesse, e illustrarmi immagini a parole e far diventare epici - perchè io ero ingorda di queste tranches de vie - i loro ricordi "raccontami di quella volta"
(certo la sigla iniziale delle cassette dei "Raccontastorie", posso ancora imitarla senza esitazioni - ma esitate a chiederla perfavore)
Non so quanto giochi la componente innata e quanto l'esperienza; quindi per conto mio, non so in che categoria potrei rientrare, penso in tutte e due, penso in infinite altre.
In ogni caso, è vero amore. E devozione.

C'è un libro che ho letto ultimamente che non può che toccare gli animi sconvolti dall'ossessiossione libresca (e magari anche da quella per le lingue straniere e, nella peggiore delle ipotesi per il giapponese); è di Helen Dewitt, il titolo è "L'ultimo samurai":
saranno circa dieci giorni che l'ho finito e ancora non riesco a farmene una ragione. Alla seconda pagina soffrivo già all'idea che l'avrei prima o poi terminato, e sapevo che avre ipatito perniciose sindromi d'abbandono quando il momento fosse arrivato (per arginare la disperazione ho dovuto attaccare con un Bryson, utile anche per trovare posto in metrò dato che di solito gli scoppi di risa solitari non sono apprezzati). E infatti.
Una cosa che amo sono i libri che parlano di libri, l'arte che parla di arte; un'altra sono le trame che ne nascondono molteplici, come quando un personaggio si mette a raccontare una lunga storia; e un'altra ancora sono i raffinati giochi di cultura, sempre che non siano pure esibizioni; e poi apprezzo l'inserimento di stralci di sceneggiature, brani, citazioni di libri, culture e personaggi di cui poco si sa, ma che esercitano un fascino incantatore.
E quando si riesce a fare in modo che tutto questo rientri in un'architettura splendida, beh...
In copertina il libro ha una foto (riquadro medio, centrata, in alto, in mezzo al bianco einaudiano) di una donna con un bambino e un libro sulle ginocchia. La curiosità e la protezione. Forse, in sintesi, quello che si cerca nei libri.
Non so chi scelga le copertine, ma sono solidale.


posted by frammento at 06:44  0 commenti