giovedì, ottobre 10, 2002

Si dedicano i post? Non è che a farsi dedicare un post da me, al destinatario cambi qualcosa, ma qui è questione di "corrispondenze".
Insomma questo è per enzo di POLAROID, blog che leggo quotidianamente, e fra parentesi (adoro) :)
Leggo che ha appena finito The Buddha of Suburbia, Il Buddha delle periferie, di Hanif Kureishi e questo non può che avvicinarci: l'anno scorso è stato la mia scoperta e nel giro di un paio di mesi ho letto tutto ciò che di suo si poteva trovare (compresa la sceneggiatura di My beautiful laundrette, non trovando il film) e ho registrato fortuitamente da raitre 'Londra mi uccide', praticamente introvabile in Italia - cosa di cui ancora mi bullo.
Colgo l'occasione, ma avrei voluto scriverne comunque, mi piacerebbe fare un raffronto fra lui e altri scrittori. Per esempio Michel Houellebecq, il suo contrario come stile, come espressione, come origine, come visione del mondo e della scrittura: l'esatto contrario. E Jonathan Coe: la stessa capacità di Kureishi di scrivere in modo emotivo, caldo, intimo - di commuovere, nel senso più totale.
Si prova nostalgia per ciò che si è letto? Quando sento di qualcuno che sta leggendo per la prima volta Kureishi, Jonathan Coe o Haruki Murakami divento meschinamente gelosa stai leggendo di me!
L'anno scorso è uscito un film di Patrice Chéreau, Intimacy, tratto da suoi racconti e da lui curato; naturalmente mi son fiondata al cinema, son tornata a casa e ho scritto... ma all'epoca non avevo mica un blog.
Lo riverso qui a un annetto di distanza, tanto per dire che non sono poi così cambiata.

Non faccio nemmeno il tentativo di essere imparziale, cioè onesta, nel dare un giudizio al film.

Dopo tutto troverei ingiusto essere imparziale per un film che ho caricato di tante aspettative, e troverei ancor più meschino non essere palesemente di parte visto il coinvolgimento emotivo che mi procurano i libri di kureishi.

Cosa penso. No, non penso - niente di corporeo, al contrario del film, così fisico e materiale.
Adesso non riesco più a scindere l'impressione, quella che rimane addosso al momento, da ciò che hanno portato i giorni successivi: un angoscioso ma piacevole motore di perplessità; s'insinua, gioca con la soddisfazione di aver visto ciò che desideravo e più.
Mi piace persino l'immagine scelta per la locandina, i suoi colori scarni, la luce glabra che scolora e asciuga i corpi, la mano maschile che si appoggia con un che di brutale - che afferra la testa femminile, l'immobilità delle membra che suo malgrado evoca qualcosa di convulso.
Un convulso composto di bellezza e disagio; una sostanza che restituisce gradualmente i suoi effetti, che si lascia assorbire con lentezza, in profondità, fluidifica le impressioni, le scioglie in nutrimento per sangue, cuore, cervello.

Assimilata, è difficile da smaltire; rimane in circolo e come nutre, divora.


Perché sono così difficili le relazioni umane? perché la comunicazione è così dolorosa, così equivoca, così violenta?
I bambini e gli dei usano le parole per battezzare la realtà, i suoi fenomeni, i suoi componenti: creano il mondo.
Gli uomini le usano per descriverlo, ma le parole sono proiettili, sono bombe che hanno il potere di manipolarlo, confezionarlo, dimensionarlo, costringerlo, violentarlo…
La felicità, la si ricerca nei modi più disparati, più disperati; si cerca di fuggire il dolore. Così, a volte è più semplice, o semplicemente inevitabile, non parlare.
Parlare toglie potere all'immaginazione, quella che fa accettare ciò che si vede - senza la mediazione della descrizione, del racconto celebrativo di sé o dell'autocensura - ciò che si vede, come dire anche solo ciò che si immagina, si fantastica, dell'altro.


Crudo e prosaico, cadente e scabroso come due corpi non giovani, non particolarmente belli, nudi dopo l'amplesso; in una cantina male illuminata, squallida, in una periferia desolante mattoni rossi e nebbia, nessun indizio di benessere o serenità.
Come sono nudi i corpi, è nuda l'intimità della persona, spogliata di sé, delle sue tracce. Il sesso in sé, atto disadorno di parole o di coscienza dell'altro è il massimo dell'intimità senza nessuna intimità.


La negazione della parola e di ciò che l'altro esprime in maniera diversa dalla pura fisicità è il rifiuto ad accettarlo come distinto dal prodotto dell'immaginazione, del desiderio che egli sia come la propria fantasticheria ha deciso che sia.
E' come se fosse frammento di sé mutuato, adattato sulla pelle dell'altro.

Quanto si è disposti a cedere della propria 'immaginazione'e del riflesso dell'altro che questa ha figurato?

Quanto si è disposti a consentire che l'altro intacchi la compattezza della propria realtà (illusoria, ma di cui si è creatori e possessori) con il suo essere - sentire, pensiero, parola, corpo, quotidianità?

Quanto si è disposti a cedere di sé?


*If you speak to someone, what might happen?*


riflussi, riflessi ----------------------------------------------------------------------------------------- riflessi, riflussi


*If you speak to someone, what might happen?*

Quanto si è capaci di non credere all'illusione della comunicazione?

No, non è solo il parlare, è ovvio. Ma quanto si può riuscire a fuggire il desiderio di comunicare?
Si prova a decidere quale direzione dare alla propria volontà.
Vegliare sulla propria superficie! Galleggiare a morto, col sole che scalda il viso e un sorriso ebete di compiacimento. Non è così male.
Ma per quanto tempo si può stare senza avvertire un'inestinta cancrena dell'io, chiaroscuro peso che la luce deforma sotto la linea di galleggiamento?


*e voglio un pensiero superficiale/ che renda la pelle splendida/ senza un finale che faccia male/ con cuori sporchi e mani lavate*


Per quanto tempo si può riuscire a scacciare il bisogno della confidenza, il senso del totale, del totalizzante desiderio di conoscenza dell'altro?

E però, rimane impossibile la fedeltà a se stessi nel raccontarsi. In bene o in male.
Rimane l'inettitudine all'empatia nei confronti dell'altro, troppo condizionata dalla propria disposizione nei suoi confronti, o degli altri tutti.
Forse si riesce a capire qualcosa del sentire di un altro, sì, ma dal proprio punto di vista: si può indossarne i vestiti, calzarli a pennello, ci si potrà momentaneamente sentire 'come' l'altro, non sentire quello che egli sente. Mai.

Si prova a decidere quale direzione dare alla propria volontà. Oh sì!
Ma l'irrazionale, l'inconscio, il sentimento sono speciali per prendere a calci in culo periodicamente la volontà e la ragione, la compostezza e la diplomazia...
E specialissimi per strappare il sipario delle innumerevoli combinazioni ('è meglio parlare/non parlare, fare/non fare, comportarsi/non comportarsi, essere presente/scomparire e - come se si potesse - voler bene/non volerne') che la volontà di non soffrire o di non far soffrire imporrebbe… e lasciare un nudo palcoscenico viscerale.

Finalmente inequivocabile? Mah.
Quand'è che va in scena la verità?

La tentazione di lasciare questo palcoscenico nudo, a volte, sembra necessità. Sarebbe l'approdo del calcio in culo alla ragione.
Mi basta la capacità di provare questa tentazione per stimare l'essere umano.
Nessuna scenografia, nessun calcolo!
Puro Sé.
Ma questo significa anche consegnarsi all'inevitabile paura del vuoto...

Un vuoto imbastito da una congerie di svariati personaggi.

L'insicurezza, il giudizio dello 'spettatore', la fragilità dell'impianto scenico, la consapevolezza di avere un'insoddisfacente coscienza di sé: così relativa (al momento, all'esperienza, alla situazione), così limitata, così multipla e, di conseguenza, così parziale!

Ma poi, sarebbe davvero 'puro sé'?
Quanto pesano la volontà, la ragione, l'istinto, il desiderio, il sentimento nell'essenza di una persona? e quanto il vissuto sociale?
Forse non esiste un nucleo di sé, di io, puro; forse il sé è soltanto un contenitore con il fondo bucato in cui entra e scivola via l'esperienza, incidendo sulle pareti interne stratificati pittogrammi di memoria…

Siamo costituiti da 4/5 litri di acqua.
Io per parte mia, sono una medusa messa ad agonizzare sulla spiaggia, acqua rapita all'acqua, indistinto cadavere di niente sciolto al sole.

Perché sono così difficili le relazioni umane?



posted by frammento at 02:28  0 commenti