mercoledì, settembre 11, 2002

Kavafis e le mie metafore.

Siamo usciti dalla mostra di Elliot Erwitt con una pila di cartoline di quelle che non si appendono e tantomeno spediscono, quelle che si tengono in mezzo ai libri o a vagare fra i cassetti, che piace veder sbucare ogni tanto da qualche pagina o piega a ricordare ciò che di essa ti riguarda, in modo discontinuo, nello stesso modo discontinuo in cui a volte ti senti oggetto, soggetto, immagine - come le rassomigli.

Ora come ora, io assomiglio a "Pasadena, 1963"; un cartello che identifica la "Lost Persons Area" sotto al quale si trovano, appunto, le persone 'perse', chi seduto, chi addormentato, chi in piedi sulla panchina a scrutare intorno alla ricerca delle fattezze conosciute di chi si aspetta che lo ritrovi.
Della foto posso dire che è stupenda nel suo bianco&nero, perfetta l'intuizione dell'attimo, della scena che si svolge, perchè si svolge, in un pacato dinamismo. Ma è soprattutto una questione di analogie, e come è facile intuire, e anche troppo, l'analogia è con il modo di stare al mondo di chi guarda.
Un cartello sopra la testa a ufficializzare, se non fosse chiaro, la condizione di persona 'persa', una panchina alla beckett che ospita l'attesa, aspettare qualcuno qualcosa che possa finalmente 'riconoscere', strappare alla perplessità, dare forma a ciò che è turbato, confuso, aspettare qualcuno che sappia impugnare il tempo, leggerne i risvolti scuri, filtrare la grana del possibile, schiantare le necessità
[e io chi sono sulla panchina, la preoccupazione in piedi su un trono di dubbi, un foulard a fasciare i pensieri, la rassegnazione che nutre un neonato sopore, la nevrosi, il dispetto?]




posted by frammento at 15:00  0 commenti