sabato, luglio 13, 2002

E' una cosa più che comune, quasi banale, arrivare all'illusoria conclusione che sia abbastanza portare con sé un sentimento d'affetto per essere convinti di capire qualcuno. Se non altro, quasi per prelazione: "chi, se non io, che ti "amo" in questo modo così viscerale, così intenso, così disinteressato".
Tante volte ho avuto la certezza di capirlo e altrettante mi sono resa conto che mi era completamente estraneo.
Tante volte ho pensato che mi capisse e altrettante mi sono dovuta ricredere, e non con poca amarezza.
Ho sempre nutrito la segreta speranza che i nostri silenzi fossero il linguaggio imperfetto di un'empatia muta ma densa, della densità vischiosa e inevitabile dei legami profondi, sofferti; quasi come se la sofferenza fosse una garanzia di autenticità.
In questo caso la sofferenza non è la consapevolezza che ogni legame è effimero e che ha una durata: il nostro è di sangue e di passato e di futuro, è qualcosa di cui non ci si può svestire.
La sofferenza, mia, che a volte ho fatto l'errore di attribuire anche a lui, sta nella difficoltà di attestare la mia vicinanza, sentita così forte e forse ingannevolmente: noi non utilizziamo il linguaggio di tutti, noi non 'diciamo' - noi ci intuiamo emotivamente.
Bandita l'ipocrisia delle frasi vuote rassicuranti, bandito il pathos, bandito il racconto di sé per non so quale intima morale rimangono goffi gesti d'affetto (carezze sui capelli con la mano incerta quasi tesa che la mancanza d'abitudine fa apparire poco spontanea) e la musica; la musica che camuffa da argomento di conversazione il discorso interiore più profondo, quello che ha la sua potenza nel rimanere non detto: "questo è ciò che ti dono - il mio desiderio di avere qualcosa in comune, di dire sono come te, sono con te".


ma non è solo così, non è così.



posted by frammento at 11:09  0 commenti